Il Brasile è il maggior esportatore di carne bovina al mondo, principalmente destinata al mercato cinese e a Hong Kong. Gli allevatori hanno bisogno di strappare sempre più terra alla foresta per pascolare il bestiame, e gli incendi sono la via più rapida per raggiungere l'obiettivo. Ma le conseguenze su atmosfera ed ecosistemi sono drammatiche
Gli allevamenti intensivi, che hanno bisogno sempre di più terra per soddisfare la crescente domanda di carne. Le monocolture, in particolare la soia. E poi l’estrazione mineraria incontrollata, il legname. Le cause degli incendi che stanno distruggendo ettari ed ettari di foresta amazzonica sono tante, intrecciate e complesse. E hanno radici profonde: la richiesta di terra si intreccia infatti con l’export crescente di carne e soia, soprattutto verso la Cina.
L’Amazzonia è la più grande foresta tropicale del mondo e si estende su otto diversi Stati, principalmente Brasile (che ne ospita oltre il 60%), Perù e Bolivia. “La principale causa di deforestazione è l’abbattimento degli alberi per creare nuovi pascoli per il bestiame”, spiega Martina Borghi di Greenpeace. Secondo la Fao, il 15% della foresta è stato trasformato: l’80% delle aree disboscate sono diventate pascoli. “Quello che solitamente succede è questo: chi arriva di fronte alla foresta vergine abbatte le specie arboree di maggior pregio e poi si brucia il resto. Il terreno ‘pulito’ va occupato, per reclamarne la proprietà, e il modo più veloce è con le mucche”. Gli allevatori hanno bisogno di strappare alla foresta quanta più terra possibile per gli animali: secondo i dati del Dipartimento dell’agricoltura degli Stati Uniti d’America (USDA) il Brasile è il primo esportatore di carne bovina al mondo, principalmente destinata al mercato cinese e a Hong Kong. In Europa arriva ‘solo’ il 7% della carne brasiliana, ma la Finlandia potrebbe interrompere l’importazione, ipotesi avanzata dal ministro delle finanze durante il G7 di Biarritz.
Piogge e Co2: cosa cambia nell’atmosfera – “Complessivamente la riduzione della superficie della foresta pluviale amazzonica è del 15% rispetto alle condizioni iniziali“, spiega la professoressa Maria Nicolina Ripa, presidente del corso di laurea in Scienze delle foreste e della natura all’Università della Tuscia. “La foresta pluviale non brucia spontaneamente, protetta com’è dall’elevata umidità. Nella maggior parte dei casi gli incendi sono causati dall’uomo: avere più terra da destinare all’agricoltura e al pascolo è una delle maggiori cause di deforestazione, gli incendi sono una conseguenza”.
Tra le attività umane che minacciano la foresta c’è anche il traffico illegale di legname e lo sfruttamento minerario, in particolare per la domanda di metalli preziosi – come l’oro – da destinare a smartphone e computer. Con un enorme impatto sul clima: distruggendo gli alberi a questa velocità, si riduce la capacità del polmone del mondo di assorbire e ‘stoccare’ anidride carbonica. Bruciando, gli alberi rilasciano grandi quantità di Co2 nell’atmosfera, stimate dalla Fao intorno alle 200 milioni di tonnellate ogni anno. Come se, in una vasca che straborda, ostruissimo lo scarico e contemporaneamente aprissimo ancora di più i rubinetti. “La deforestazione e gli incendi influiscono anche sulle piogge – continua Ripa -. La foresta ‘produce’ la pioggia perché le piante attraverso la traspirazione immettono grandi quantità di vapore in atmosfera, che poi ricade al suolo sotto forma di pioggia, anche in aree molto distanti. La riduzione delle foreste quindi contribuisce all’aumento della siccità“. Facilitando così la propagazione di incendi: un circolo vizioso. A pagarne il prezzo sono soprattutto le comunità indigene locali, che hanno visto andare in fumo la loro casa, la loro terra, il loro futuro. Ma il fuoco – che dall’inizio dell’anno ha divorato già 43.753 chilometri quadrati di foresta – mette a rischio anche la sopravvivenza di specie animali già considerate a rischio estinzione: il Wwf ne ha contate 265.
Dalla foresta alla tavola: la filiera della carne e della soia – Secondo un rapporto Fao del 2013, il bestiame è responsabile del 14,5% delle emissioni di gas serra causate dall’uomo. Soprattutto di metano e protossido di azoto, quelle che hanno un impatto maggiore. Per non parlare poi dei trasporti e della distribuzione, per far arrivare la carne dalla macellazione agli scaffali del supermercato, o dei ristoranti, dall’altra parte del mondo. Ma bisogna allargare lo zoom e fare un passo indietro nella filiera dell’allevamento, considerando anche le risorse impiegate per alimentarli: la terra destinata al foraggio e i cereali, i semi e i legumi che costituiscono i loro mangimi. Un altro nemico della foresta è la soia: paradossalmente, un alimento molto in voga nelle diete vegetariane viene coltivato principalmente per l’industria degli allevamenti.
“Le monocolture sono un altro problema – continua Martina Borghi – questo non succede moltissimo in Amazzonia, dove c’è una moratoria contro la produzione di soia, almeno formalmente, bensì nel Cerrado, che era una savana ricchissima di biodiversità“. Il 70 per cento della produzione mondiale di questo legume non finisce sulle tavole, ma nelle mangiatoie del bestiame, in particolare dei maiali, di cui la Cina è il principale allevatore. L’Istituto per gli studi di politica internazionale (ISPI) ha ricostruito la filiera della soia in un dossier che parte dal Brasile e arriva in Cina, il principale paese importatore di soia al mondo, che per via dei dazi sulla soia statunitense ha dovuto rivolgere lo sguardo verso l’America Latina. La domanda crescente ha spinto gli imprenditori agricoli del Mato Grosso a trasformare la ‘giungla fitta’ da cui prende il nome in una distesa di campi coltivati. Una trasformazione redditizia, ma costosissima in termini di impatto ambientale: ecosistemi distrutti, suolo trasformato chimicamente per una resa migliore, acque inquinate. “Noi di Greenpeace non chiediamo il boicottaggio dei prodotti brasiliani – conclude Borghi – ma chiediamo all’Europa una sospensione dei rapporti commerciali con il Mercosur, finché non verrà garantito il pieno rispetto di diritti umani e ambiente. Stiamo anche chiedendo alle multinazionali – soprattutto quelle del cibo, come McDonald’s e Burger King – tracciabilità e trasparenza nelle filiere, prima di continuare ad acquistare materie prime agricole”.