Nel 1982 accadde una specie di miracolo sportivo ricordato come “Mundial di Spagna”. Una squadra di apparenti brocchi – dopo aver giocato in modo indecoroso la fase preliminare del Campionato del mondo di calcio – si trasformò in una formazione leggendaria trascinata da Pablito, al secolo Paolo Rossi, autore di sei gol consecutivi nelle ultime tre partite fino all’apoteosi della finalissima vinta contro la Germania.
Forse non molti lo ricordano, ma quell’evento ebbe anche una ricaduta di costume sul piano del folklore, e una coda di polemiche sul piano politico-sociale. Infatti, ridestò un sentimento identitario e affratellante tradottosi in un vero e proprio bagno di folla colorato e gaudente: il bianco e il rosso, il verde e l’azzurro di drappi, vessilli, camicie, magliette divennero la coreografia cromatica di un’autentica festa di piazza collettiva, da Aosta a Taormina.
In tanti si chiedevano – e, più d’uno, con imbarazzo schifiltoso e snob – da dove sbucassero tutte quelle bandiere; quasi ci fosse da vergognarsene, come se si trattasse di armi improprie dissepolte da qualche arsenale occulto del passato regime. Insomma, in linea generale, quel risveglio di coscienza nazionalpopolare non piacque affatto a tutti. In un paese tradizionalmente spaccato tra due maggioranze esterofile, una vaticano-americana e l’altra russo-sovietica, quella roba lì sembrava, a taluni, assai retrò, per non dire populista, per non dire fascista proprio.
Perché questa premessa, vi chiederete? Perché, tutto sommato, fatta ogni debita proporzione, e depurati i due fenomeni dalle rispettive incrostazioni contingenti, quella forma di “ritorno di fiamma” per l’orgoglio italico ricorda un po’ quanto sta accadendo, da qualche anno, nel nostro Paese, nel dilagare della sensibilità cosiddetta “sovranista”. Con una enorme differenza che fa la differenza.
Nel primo caso, l’estemporaneo rigurgito di amor patrio fu determinato da un evento positivo, straordinario ed eccitante, ma di nessun rilievo politico; e infatti non ebbe alcuna ricaduta significativa se non, appunto, l’inatteso piacere di riscoprirsi, per una notte, tutti azzurri e tutti fieramente italiani. Nel secondo caso, invece, gli ardori sovranisti, intrisi anch’essi di patriottismo militante, sono stati innescati da un evento negativo, ordinario e deprimente; e tutto politico: la “conquista” straniera dell’Italia, dei suoi gioielli e persino delle sue istituzioni.
Basti pensare alle famose e auspicate “cessioni di sovranità” indispensabili, si dice, per mitigare gli “egoismi nazionali”. Una conquista avvenuta non manu militari. Piuttosto per via diplomatica, trattato dopo trattato, senza colpo ferire e senza morti e feriti, a parte i tragici suicidi da austerity e il declassamento di intere fasce della classe media; in genere, derubricati dalla grande stampa a insignificanti e tollerabili “effetti collaterali” del risanamento dei conti.
Ora il tema diventa: quanto è autentico e genuino lo spirito patriottico nel nostro Paese? Se nel 1982 esso pareva solo uno sbocco pittoresco di energia repressa, uno sfogo sacrosanto dopo i plumbei anni di piombo, oggi cos’è?
A ben vedere, e a posteriori, il casino scatenato dalla banda di Bearzot rappresentò un campanello di allarme per i detentori del potere politico (democristiani) e per i titolari dell’egemonia culturale (comunisti) di allora. Milioni di italiani esaltati erano scesi in piazza per festeggiare la Coppa del mondo: una baracconata da strapaese, dopotutto. Roba plebea da sopportare, con sussiego, che tanto poi passa. E infatti poi passò. Ma adesso? Quanto il sovranismo può davvero spaventare i nipotini apolidi, mondialisti ed “europeisti” di Dc e Pci, confluiti in un partito, il Pd, che sintetizza al massimo grado, e nel modo più perfettamente compiuto, il dispregio per ogni afflato nazionalistico?
La domanda è importante perché misura il grado di resilienza e di “sostanza” del nuovo patriottismo sovranista, non più meramente pallonaro, ma anche dichiaratamente politico. Detto altrimenti, a quanti sedicenti sovranisti di oggi interessa davvero preservare, soprattutto sul piano costituzionale, l’identità italiana contro ogni progetto di con-fusione in un contenitore sovrastante come gli Stati Uniti d’Europa prossimi venturi?
Insomma, se la flessibilità diventasse la regola anziché l’eccezione, se abrogassero il fiscal compact, se cessasse l’incubo spread, se accadessero alcune delle cose di cui già si comincia a parlare – o addirittura cose più radicali e innovative atte a rilanciare la crescita e il Pil – quanti si opporrebbero all’avvento degli Use? Quanti di coloro che oggi rivendicano la propria inclinazione, o identità, sovranista rimarrebbero sul pezzo seguitando a difendere, e a diffondere, il verbo degli articoli 11 e 139 della nostra Costituzione?
Il dubbio è che la nutrita schiera di chi si dichiara sovranista si ridurrebbe a un drappello, se va bene. Ma solo la storia ci darà la risposta e ci rivelerà se il “rinascimento patriottico” cui abbiamo assistito negli ultimi anni è una cosa un po’ più seria della pur esaltante euforia di quell’indimenticabile 1982.
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