di Flavio Lo Faro
In tutte le città ci sono stati dei personaggi eccentrici – forse matti o semplicemente stravaganti – entrati di diritto nella storia locale; ma alcuni di questi diventano Storia e molti di loro si possono trovare all’interno di un contesto inusuale, in cui la normalità diventa una pressa del tutto innaturale per l’essere umano.
Il 17 settembre del 1859, 160 anni fa, un uomo scrisse a mano – ancora non esisteva la macchina da scrivere – un proclama rivolto alla sua nazione “adottiva”, gli Usa, in cui si autoproclamava imperatore: “A perentoria richiesta e desiderio di una larga maggioranza di questi Stati Uniti, io, Joshua Norton, un tempo cittadino di Algoa Bay, Capo di Buona Speranza, e oggi e per gli ultimi scorsi 9 anni e 10 mesi cittadino di San Francisco, California, dichiaro e proclamo me stesso Imperatore di questi Stati Uniti”.
Va da sé che gli Usa non sono mai stati un impero, almeno giuridicamente. Ma un imperatore c’era e ha regnato per 21 anni, almeno nella sua mente: Norton I, nato in Gran Bretagna nel 1819 e arrivato in California nel 1849, dopo aver passato buona parte della vita in Sudafrica.
Al tempo gli Usa erano uno stato recente: al 1776, anno della dichiarazione d’indipendenza, non contemplavano le attuali dimensioni. Quando arrivò Norton, era da poco finita la guerra contro il Messico; conflitto conclusosi con l’acquisizione, tra i tanti territori, della California, il 31esimo stato. Gli Usa crescevano velocemente: dalle 13 colonie erano passati a 31 stati con la forza delle armi, ma anche con le esplorazioni di uomini alla ricerca di fortuna: la conquista del West, dell’orizzonte sul Pacifico. Per non parlare di un’altra corsa, quella all’oro.
Uno stato nascente dalla forza propulsiva straordinaria, che attirava immigrati da tutto il mondo in cerca di fortuna e di terre da far proprie, quelle che mancavano in patria. Ma anche fragile, come tutto ciò che si sta formando e che lotta per acquisire una forma e un equilibrio. L’odore di una guerra civile – passata alla storia col nome di “guerra di secessione”- tra Nord e Sud si sentiva nell’aria. Il tema dell’abolizione della schiavitù era il fulcro di un paese spaccato in due: due economie, due modi di vivere totalmente differenti.
Norton era parte di questa storia, parte del “sogno americano”, e visse un periodo di enorme incertezza non solo politico-sociale, ma anche personale. Abile mercante, diventò ben presto benestante, fino a quando, convinto di cogliere l’occasione della sua vita, comprò un carico di riso dal Perù da rivendere a un prezzo elevato, dato che la Cina, a causa di una carestia, ne aveva bloccato le esportazioni.
Ma ben presto giunsero altre navi, deprezzandone il valore e portandolo alla rovina. Rimasto senza un soldo, tentò una causa di risarcimento, ma la Corte gli diede torto: è il 1856 quando venne emessa la sentenza e negli anni successivi visse nella miseria e nell’anonimato, fino al giorno dell’autoproclamazione.
L’annuncio non venne preso in considerazione dai giornali, tranne da uno, il San Francisco Bulletin, che lo pubblicò per prenderlo in giro: è l’inizio della notorietà. Vestito con un giubba blu dalle spalline dorate, un cappello di castoro con piuma di pavone e un bastone come sciabola, l’imperatore girava, salutato dai suoi sudditi, per San Francisco dando consigli, ispezionando strade e mezzi di trasporto e giudicando lo stato della cosa pubblica.
Divenne un personaggio amato e ascoltato, pur ritenuto pazzo dai più. Quando la polizia lo arrestò per farlo curare (1867), la cittadinanza e i giornali si mobilitarono e chiesero il suo rilascio. Il capo della polizia fu costretto a scusarsi pubblicamente, mentre Norton chiuse un occhio sull’incidente. Oppure, durante una manifestazione anti-cinese, all’epoca una minoranza discriminata (molte le vittime di queste rappresaglie), l’imperatore Norton si frappose fra la folla inferocita e gli orientali, disperdendo gli aggressori e salvando la vita agli assaliti.
Ma è dalle lettere (quelle considerate vere sono ancora oggi conservate in un museo) che possiamo recuperare “l’aria del tempo”: già dalla sua nomina a imperatore, egli sottolineò la necessità di modificare le leggi vigenti “al fine di correggere i mali sotto i quali questa nazione si trova ad operare, e in tal modo ripristinare la fiducia, sia in patria che all’estero, nell’esistenza della nostra stabilità e integrità”.
Forse era matto, oppure no: Mark Twain, che lo aveva conosciuto e da cui aveva preso ispirazione per il personaggio del Re ne Le avventure di Huckleberry Finn, sostenne che Norton non fosse pazzo, bensì eccentrico e convinto del suo ruolo di imperatore.
Ma la preoccupazione politica fu il cuore della sua vicenda e della sua vita. Preoccupazione che lo portò a intimare lo scioglimento del Congresso, a proclamarsi anche protettore del Messico, a ordinare alla Chiesa cattolica e a quella luterana di nominarlo imperatore (1862), a licenziare prima Abraham Lincoln (1862), poi il suo successore Andrew Johnson (1868) – Norton ordinò di arrestarlo e gli intimò addirittura di pulirgli le scarpe -, a “sciogliere” sia il partito Democratico sia quello Repubblicano (1869). Propose anche l’abolizione delle guerre di religione e ideò una sorta di Nazioni Unite.
Perché, pur folle o no, l’aria di crisi del suo tempo lo toccò profondamente, portandolo a chiudersi all’interno di quella giubba blu, in un mondo di giustizia e di ordine del tutto personale in cui lui, ottenuti i pieni poteri per volontà del popolo, poteva rendere tutto perfetto e armonioso.
Alla sua morte, l’8 gennaio 1880, molti giornali di San Francisco riportarono la notizia del decesso; la città organizzò e pagò i funerali a cui assistettero tra le 10 e le 30mila persone (la cifra è incerta).
Nella fiaba I vestiti nuovi dell’imperatore, il re, coperto solo della sua vanità, non si accorse di fronte ai suoi sudditi di essere completamente nudo. Sulla lapide di Norton, invece, venne inciso: Norton I, imperatore degli Stati uniti e protettore del Messico. Perché, folle o meno che fosse, a conti fatti fu amato dai suoi sudditi, sentì come loro le fragilità del suo tempo e non morì nudo.