Cinema

Antropocene – L’epoca umana, l’inarrestabile distruzione della natura – La clip

Un monumentale, silente, impressionante lavoro, pardon, di scavo su come l’uomo abbia scarnificando montagne, modificando corsi d’acqua, estraendo materie prime, costruendo fino all’impossibile consumando territorio naturalmente intonso

di Davide Turrini

Ci siamo mangiati il pianeta. Se Greta – la Thunberg, non la presunta fanciulla di Bibbiano – e la sua apocalisse ecologica non vi bastano, Antropocene – L’epoca umana è il documentario che fa per voi. Un monumentale, silente, impressionante lavoro, pardon, di scavo su come l’uomo ha distrutto la natura scarnificando montagne, modificando corsi d’acqua, estraendo materie prime, costruendo fino all’impossibile consumando territorio naturalmente intonso. Scontato da dire. Meno scontato, anzi molto perturbante, da vedere. Si inizia con una infernale e immensa pira di zanne d’elefante sequestrate ai bracconieri in Africa; si attraversa il circolo polare artico a Norilsk dove è in funzione la più grande miniera di metalli colorati e relativo terrificante smaltimento tossico al mondo; si fa un saltino tra i marmi di Carrara tagliati e asportati finemente dalla roccia viva per fare pavimenti, busti e caminetti; si arriva nel deserto dell’Atacama in Cile con impressionanti, coloratissime, tossiche miniere di litio a cielo aperto.

Ma la distruzione del pianeta non è solo nel giardino di casa di qualche paese del terzo mondo o più arretrato economicamente. Ci sono le miniere di fosfato in Florida, le raffinerie a perdita d’occhio a Houston in Texas, ma soprattutto la distruzione di intere alte colline con le più grandi scavatrici al mondo ad Immerath, nel Reno-Westfalia tedesco, per ottenere lignite e carbone. Qui davvero l’immagine supera la fantasia. Questi mostruosi macchinari da 12mila tonnellate letteralmente cancellano luoghi naturali esistenti da secoli (quando lo fa Bolsonaro con l’Amazzonia è scandalo, nella linda e avanzata Germani nein), ma soprattutto piccoli paesini, con quattro case in croce. Le lente carrellate di Jennifer Baichwal, Nicholas de Pencier ed Edward Burtynsky riescono a trasmettere una scossa tellurica etica sull’immensità del tracollo antropizzante con annessa totalizzante immobilità dello spettatore di fronte allo scempio. A che prezzo il progresso, ci si chiedeva non più di 30/40 anni fa. Ora non c’è nemmeno più bisogno di porsi domande perché tutto è già stato compiuto e non si torna più indietro.

Voce narrante originale di Alicia Vikander che qui diventa Alba Rohrwacher. Con un paio di appendici interessanti tanto quanto il documentario. La mostra fotografica al MAST di Bologna, altrettanto se non più inquietante del film, con le dimensioni maxi delle foto di Baichwal, de Pencier e Burtynsky e il saggio da cui tutto prende antropologicamente e politicamente forma, ovvero La grande accelerazione di J.R.McNeill e Peter Engelke (Einaudi) dove si postula la tesi che l’Olocene si è concluso nel 1945, o almeno con la rivoluzione industriale tra sette e ottocento, per lasciare spazio all’Antropocene, l’epoca della distruzione umana del pianeta. Al cinema dal 19 settembre. Distribuisce Valmyn.

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