Regione Calabria, Comune di Limbadi (retto dai commissari prefettizi dopo lo scioglimento per infiltrazioni mafiose) e ministero dell’Interno non hanno ritenuto di chiedere i danni alla famiglia che fece saltare in aria Matteo Vinci perché, con il padre e la madre, non avevano acconsentito alla cessione dei loro terreni ai clan
Francesco Vinci e Rosaria Scarpulla si ritrovano per l’ennesima volta soli. Soli contro una delle più feroci cosche mafiose della Calabria: i Mancuso che, a Limbadi, il 9 aprile 2018 hanno ucciso con un’autobomba loro figlio Matteo. Ieri a Catanzaro, davanti alla Corte d’Assise, c’è stata la prima udienza del processo contro Rosaria Mancuso, suo marito Domenico Di Grillo, la figlia Lucia e il genero Vito Barbara, arrestati l’anno scorso dalla Dda di Catanzaro nell’ambito dell’operazione “Demetra”. Finite le passerelle, i pianti e le manifestazioni varie contro la ‘ndrangheta, le istituzioni, gli enti locali e associazioni antimafia hanno disertato l’udienza. A parte la “mamma coraggio” Rosaria Scarpulla e suo marito Francesco, ferito gravemente nell’attentato con l’autobomba, nessuno ha chiesto di costituirsi parte civile: né la Regione Calabria, né il Comune di Limbadi (retto dai commissari prefettizi dopo lo scioglimento per infiltrazioni mafiose) e nemmeno il ministero dell’Interno hanno ritenuto di chiedere i danni alla cosca Mancuso.
Un’aula vuota, quindi, con i parenti dei boss sul banco degli imputati e i genitori di Matteo Vinci fatto saltare in aria perché la sua famiglia non ha piegato la testa davanti alla prepotenza dei Mancuso che volevano i loro terreni. Un’aula vuota che, secondo Rosaria Scarpulla intervistata dalla Gazzetta del Sud, “è il segno di quello che abbiamo dovuto combattere fino adesso, l’omertà anche delle istituzioni. Davanti a questi comportamenti come si pretende che i cittadini si espongano alla violenza dei clan?”. Eppure, l’ormai ex ministro dell’Interno Matteo Salvini a inizio luglio era stato proprio a Limbadi dove, però, non aveva incontrato i testimoni di giustizia. In quell’occasione della consegna di un bene confiscato alla ‘ndrangneta, dopo aver superato la folla che voleva fare un selfie con il leader della Lega, Rosaria Scarpulla era riuscita a incontrarlo e si era lamentata del fatto che “doveva essere il ministro ad andare da Matteo (Vinci, ndr) e non lei”. “Gli voglio chiedere – erano state le parole di “mamma coraggio” – se è venuto a visitare edifici o se davvero vuole stare vicino a chi subisce le angherie della mafia”.
A distanza di due mesi il ministero dell’Interno, la Regione Calabria e il comune di Limbadi hanno deciso di non costituirsi parte civile contro i Mancuso. “Le istituzioni democratiche – è il commento dell’avvocato Giuseppe De Pace che assiste la famiglia Vinci – sono state latitanti perché non hanno compreso il significato generale dell’atto terroristico-mafioso compiuto il 9 aprile 2018 ai danni di una famiglia che si è battuta in tutti questi anni in isolamento totale e completo a mani nude contro questo clan mafioso. Una famiglia che mai è stata supportata dallo Stato Anzi in determinate occasioni lo Stato stesso ha appoggiato l’azione dei Mancuso”. “Anche le associazioni che si fregiano del titolo di antimafia – conclude il legale – si sono rivelate buone solo per le occasioni ufficiali, per fare cerimonie retoriche e passerelle. Evidentemente per loro ancora non ci sono le condizioni per impegnarsi in attività come quella di parte civile”.