“Era il 26 dicembre 1968, lui si impiccò. L’Urlo del titolo è quello di mia madre, quando lo scoprì”. È un Marco Bellocchio inedito e molto introspettivo quello che si racconta sulle pagine di Vanity Fair. Alla soglia degli 80 anni, il regista ha deciso di confidarsi, ricordando il suicidio del suo fratello gemello, Camillo, che ha voluto raccontare “nel film che abbiamo girato quest’anno a Bobbio”. Un lutto che non ha mai metabolizzato fino in fondo.
“Era il non intellettuale di noi fratelli, si era diplomato all’Isef ed era diventato professore di Educazione fisica – racconta Bellocchio -. Eppure, c’era evidentemente una ferita profonda che l’ha schiacciato. Il Sessantotto fu per tanti un anno di speranza di vita. Per noi è stato un annus horribilis. Io non avevo responsabilità diretta, vivevo a Roma, non ci vedevamo da anni. Ma di fatto non ho capito niente di una tragedia che stava per avvenire. Allora ti dici: è la mia miseria sentimentale, umana. E sei pieno di sensi di colpa”.
Tutto questo, in un contesto familiare da sempre poco avvezzo ai sentimenti: “Per un lungo periodo nella mia famiglia c’era il sentimento di sopravvivere, come se al suo interno ci fosse poco spazio per l’amore, per l’affetto – ha ammesso il regista -. Di questa aridità e rabbia I pugni in tasca è una rappresentazione”. E ora, alla vigilia del compleanno (farà 80 il prossimo novembre, ndr) Marco Bellocchio confessa che di rimpianti ne ha, soprattutto nella sfera famigliare: “I figli. Ne ho due e credo di essermi comportato meglio con Elena, che ha 24 anni, cui ho dato un’attenzione e una presenza maggiore, che con Pier Giorgio: con lui ho fatto errori di trascuratezza”.
Parlando del suo lavoro invece, svela che dopo il successo de Il Traditore, sta preparando una serie sul rapimento di Aldo Moro, Esterno, notte, i cui protagonisti non sono ancora stati scelti: “La qualità sarà legata alla grandezza degli attori, che vanno trovati. Mi piacciono comunque gli attori che imparano, leggono, Come Favino”.