Sono passati 25 anni dalla morte di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, giornalisti della Rai uccisi in Somalia il 20 marzo 1994. Dopo lunghi processi, diverse commissioni parlamentari, depistaggi tra prove inquinate e testimoni falsi, la verità resta lontana. Di più: ora il caso rischia di essere archiviato. Il 20 settembre, domani, il gip deciderà sulla richiesta di archiviazione presentata dal pubblico ministero. Le famiglie dei due giornalisti assassinati a Mogadiscio faranno opposizione. Lo stesso faranno Ordine dei giornalisti, Federazione nazionale della stampa e Usigrai: “Le indagini non sono ancora arrivate a individuare nemmeno un soggetto indagato, un sospettato, sia come esecutore che come mandante e come depistatore nelle indagini” dice a ilfattoquotidiano.it Giulio Vasaturo, legale di Ordine e sindacati. “L’archiviazione – continua – significherebbe interrompere ogni attività volta all’accertamento e alla identificazione anche solo di un potenziale sospettato, significherebbe interrompere, forse per sempre, la ricerca di verità e giustizia sugli omicidi”.
Tra depistaggi e reticenze
In un caso caratterizzato da reticenze, false testimonianze, negazioni – nonché dall’incarcerazione di una persona rivelatasi poi innocente, Hashi Omar Hassan -, uno dei punti più importanti contro l’archiviazione riguarda la testimonianza di una fonte dei servizi segreti italiani che sarebbe a conoscenza di elementi determinanti per l’avvio di una indagine più approfondita: “L’autorità giudiziaria – spiega Vasaturo – ha segnalato da oltre dieci anni l’esigenza di individuare una fonte dei servizi segreti del Sisde, che finora è stata tenuta oscura agli inquirenti. Ancora una volta i nostri apparati di intelligence si sono rifiutati di rendere noto il nome di questa fonte che sarebbe in grado di riferire circostanze utili sul caso Alpi”.
Sull’uccisione dei due giornalisti si intrecciano vicende oscure del passaggio tra Prima e Seconda Repubblica, sulle quali è ancora difficile fare luce. Ilaria Alpi era ufficialmente in Somalia per seguire il ritiro del contingente italiano, ma indagava in particolare su una flotta di navi da pesca donata dalla cooperazione italiana al paese africano. Ma anche su questo aspetto è difficile fare chiarezza: tutte le ipotesi su eventuali e presunti traffici di armi o rifiuti radioattivi tra i due Paesi sono sempre cadute nel nulla, in un silenzio sostenuto tra gli altri anche dallo Stato italiano.
Le parole di uno dei marinai della cooperazione italo-somala
Il ruolo dell’Italia nel contesto della guerra civile somala presenta infatti aspetti ancora poco chiari, come sembrano confermare le scarse testimonianze di chi fu (suo malgrado) fra i protagonisti di quegli eventi. “Una cosa è certa: senza il permesso del governo italiano in Somalia non si muoveva una foglia”, dice a ilfattoquotidiano.it Franco Delli Passeri, che si trovava a Bosaso negli anni Novanta in qualità di direttore di macchina del peschereccio Faarax Omar, sequestrato per 45 giorni dai guerriglieri somali (dal 15 marzo al 29 aprile 1994) e poi liberato dopo il pagamento di un riscatto. Si tratta di una delle navi su cui indagava Ilaria Alpi, cercando forse di collegare i suoi spostamenti al presunto traffico d’armi e rifiuti tossici fra Europa e Africa. In linea con i numerosi silenzi che hanno caratterizzato il caso, anche Franco Delli Passeri si è mostrato molto reticente a parlare e a rispondere a domande precise sul ruolo di quelle navi.
Il possibile tornaconto dello Stato italiano
“È chiaro che il nostro Paese avesse stretto con lo Stato africano una fitta rete di rapporti e che lì in Somalia confluissero interessi di vario tipo”, spiega ancora a ilfatto.it l’ex membro dell’equipaggio della Faraax Omar, ribadendo di seguire un ragionamento del tutto ipotetico. “Il punto è questo: che tornaconto ha avuto l’Italia per tutti i soldi spesi in aiuti e ricostruzione su quel territorio? Io escludo che ci fossero traffici illeciti di armi che passassero dalla Somalia. Per quello bastava andare a Dubai, dove si poteva acquistare qualsiasi cosa sul mercato nero…”.
“È però possibile – facendo ovviamente solo delle supposizioni – che nel Paese africano avvenisse lo smaltimento di scorie radioattive e rifiuti tossici”, continua Delli Passeri. “In qualità di capo-macchina io avevo accesso a ogni “stanza” della nave, ma se si vuole nascondere sulle imbarcazioni del materiale di quel tipo lo può fare senza che nessuno se ne accorga: basta immagazzinarlo sotto un altro nome o catalogazione e lasciare che venga messo in stiva. Non so se questo avvenisse, e non ho alcuna prova. Mi viene solo un dubbio: perché, dopo che è finita la guerra, tutte le autorità italiane presenti in Somalia, dal console al commissario ai cancellieri, sono stati trasferite in altri luoghi? È probabile che, dall’alto, qualcuno voleva che non si parlassero più”.
di Francesco Brusa, Federico Francesconi e Sofia Nardacchione