Cercate di vedere l'opera di Quentin Tarantino in lingua originale e possibilmente, come abbiamo fatto noi (grazie Cineteca di Bologna), proiettato in pellicola
Si può attendere per oltre due ore di film, carrellate di piedi e stivaletti, inquadrature clonate da Sergio Leone, sfiancante chiacchiericcio su pronunce dei nomi propri (DeCatou che finisce Dakota), perfino un Roman Polanski che sembra Austin Power, e poi spellarsi le mani negli ultimi quindici minuti? Con Tarantino si può. Al Tarantino di C’era una volta a… Hollywood si concede tutto. Dal clamoroso cazzeggio sulla propria cinefilia (qui addirittura la macchina da presa del regista diventa quella che crea cinema e serie tv di fine anni sessanta), ai movimenti di macchina articolati che spesso si arenano apparentemente fine a se stessi (tanto esasperato dolly come allora e chissà forse perfino la louma che usava Polanski ne L’inquilino del terzo piano…), passando per un abbozzo spurio di tematica (l’amicizia virile, diremmo così a spanne).
Il cinema di Tarantino non va gustato per sapere “chi sarà l’assassino”, quanto per osservare la mai scontata volontà dell’autore di riempire il quadro, di ricostruire un mondo (i poster dei film italiani di genere sono una meraviglia), di mostrarne i meccanismi nascosti (il set dell’attore DiCaprio nel set di C’era una volta… come fosse un unico spazio/tempo), di rimanere sorpresi dalle sgargianti e significanti tonalità di abiti e scene (la camicia hawaiana di Brad Pitt, per dirne una, vale l’intero film), di un lavoro sulla profondità di campo per motivare una giocosa, spaccona, vitale ricostruzione di un’atmosfera. Tutti conoscono già la lineetta sottile di trama per immergere lo spettatore nel mondo Tarantino.
Siamo nel 1969 nei sobborghi di Hollywood. L’attorucolo di serie tv e cinema di genere Rick Dalton (DiCaprio) è parecchio esaurito e nervoso perché seppur giovane teme di essere già agli sgoccioli di una carriera media ma non da star. Al suo fianco la silenziosa e saggia sua controfigura/stuntman (Brad Pitt) sui set, che gli guida l’auto, lo scarrozza ovunque, gli aggiusta pure l’antenna di casa. Dalton abita in una villa di Cielo Drive a Los Angeles. I suoi vicini di casa sono Roman Polanski e Sharon Tate (ma anche Jay Sebring). Chi conosce la storia sa che nell’agosto del 1969 proprio a casa Polanski dovrebbe avvenire un efferato omicidio da parte della Manson family. Appunto, dovrebbe. Questa l’esile struttura che non consente mai un vero e proprio appiglio classico narrativo. Tarantino divaga, devia, apre enormi infinite parentesi sui dettagli privati più infinitesimali e follicolari dei protagonisti. Insomma un Tarantino in purezza, quintessenza dei dialoghi Travolta/Jackson in Pulp Fiction. Poi, una volta che tutto questo magma di particolari grezzi si condensa, che Cliff si avvicina per caso alla setta di Charles Manson, che Rick riesce almeno per un attimo a diventare eroe degli spaghetti western, C’era una volta a… Hollywood prende finalmente la forma definitiva di un diamante.
Le linee convergono verso un finale clamoroso e devastante. Un grand guignol purificatore storicamente revisionista che necessita, almeno per chi non conosce bene la “storia” di quella notte del ’69, di un ripassino. C’era una volta a… Hollywood è, oltretutto, un omaggio all’atto del guardare, del godere di immagini in movimento dentro una sala cinematografica. La dolcezza di questa sequenza frammentata e reiterata in cui Sharon Tate/Margot Robbie, illuminata dalla luce che viene dal grande schermo del cinema, segue coi piedini scalzi appoggiati sullo schienale della poltroncina davanti la sua interpretazione in The wrecking crew confondendosi con la folla, è un vero e proprio gesto d’amore che Tarantino cesella ammirato verso la propria passione cinefila che, nei suoi film, tenta sempre la via dell’universalità.
Poi è chiaro, dopo quasi trent’anni di carriera continuare a valutare Tarantino come un salvatore eccentrico e cool del cinema statunitense, un po’ come sono cool i suoi eroi di C’era una volta… nello sconfiggere l’allegoria fantasiosa della Manson family zombie, è posizione critica molto ammuffita. Tarantino si autocelebra di continuo. È un difetto di presunzione palese. Solo che usciti da questo film ti sembra di aver assaporato il gusto di un cinema primario, basico, profondo. Qualcosa di ancorato follemente alla materia di cui sono fatti i sogni. Infine, una considerazione e un consiglio. Brad Pitt è più in palla di DiCaprio. Cercate di vedere il film in lingua originale e possibilmente, come abbiamo fatto noi (grazie Cineteca di Bologna), proiettato in pellicola.