Apri le pagine e sei inghiottito dalla ferita del mondo, quella nascosta: la chiamano “indicibile”. Ti par di precipitare in un lunghissimo, terrificante ghigno senza suono. Sei finito in una piccola storia, e in un’altra ancora più piccola, e più piccola questa ti si mostra, più crudele ti avvince o ti sfinisce. I racconti sono di Gabriele Galloni, Sonno giapponese (silloge per i tipi di Italic Pequod), giovanissimo scrittore romano, classe 1995.

Non è da sottovalutare il dato anagrafico perché da lì, sul confronto della precocità e dell’antologizzazione (stranissimo neologismo, ma utile) di una materia poetica, uno stile comincia e si concentra lo stupore del lettore. Non troverete il deliquio un po’ tenero, un po’ commovente – da scagionare in definitiva – dell’esordiente; l’inciampo lodevole che ci si aspetta da un autore alle prime armi. Non lo troverete l’inciampo. Troverete la vocazione già pronta alla grande scrittura. Sonno giapponese racconta miniature: avete presente quei minuscoli quadretti, infinitamente minuscoli, dipinti superbamente, nel dettaglio millimetrico, dipinti essi stessi millimetrici?

Ecco, sono i racconti di Gabriele. Fissi meglio il particolare, come – non so – la cima di un vulcano nel quadretto millimetrico, e sorprendi il pennacchio e un uomo nella valle che nella distanza – la mano a ripararsi gli occhi – osteggia il fumo della nube e guarda oltre la vetta, il vulcano, il pennacchio. Alla stessa maniera intercettiamo poche righe, dentro le brevi storie, e nelle poche righe notiamo confabulare il dolore dell’universo, tutta la stoltezza cinica e vitrea, la perdizione, il male che non espia, che non assurge sulla fine, il male della violazione senza risorsa.

E penso al racconto sullo sfondo di una violenza pedofila. Ed è l’esperienza irripetibile. Gabriele Galloni supera il limite, osa dove per opportunità si potrebbe arretrare. Il bambino violato, la sua malinconia devastata, la compromissione dell’innocenza fino a trasformarsi in un anomalo frutto, viene restituita dall’inaccettabile: un calcio sullo stomaco.

E “inaccettabile” è l’unico aggettivo che mi rimane in testa alla fine della lettura. Non uno di questi racconti, nemmeno quello che in superficie si presenta innocuo – nemmeno quello – ti risparmia il colpo di coda. La sferza: il coltello conficcato nel fianco, persino il più innocuo in apparenza, riesce a scoprire ancora una vulnerabilità.

Lo sguardo che uno scrittore deposita o lancia sul mondo dipende da molte cose. Spesso è anche una scelta vile. Spesso è la determinazione nella speranza e nella fiducia assoluta, in quanto deterrente a una morte morale verso cui vorrebbe indirizzarci la tendenza delle vicende finite e umane. Poi c’è la crudeltà.

Credo che Gabriele Galloni abbia preferito scegliere e abbia scelto l’opzione sgradevole e affatto gratificante, men che meno consolatoria. Mi interrogo sul coraggio sfrenato di questo autore che pur tanto giovane ha scelto l’opzione della crudeltà, degli occhi sbarrati sulla vita, senza inganno, senza lode, senza gaudio. Leggetelo, siate adeguati alla lettura però, temprati, perché è quanto pretende questa raccolta di inaccettabili piccole storie di umani.

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