In Italia gli orologi più che sull’ora della radio devono essere sintonizzati su Alitalia. Puntualissima è appena arrivata l’ennesima proroga (o puntata) di questa infinita saga. Il governo ha infatti deciso di spostare al 15 ottobre il termine per la presentazione dell’offerta vincolante di acquisto dell’aviolinea.
Ma alla fine l’esecutivo, per dare ulteriori emozioni agli appassionati del genere bramosi di nuovi episodi, quando sarà ora farà una bella offerta a se stesso. Tanto ormai l’unica cordata che ambisce a scalare quest’impervia vetta è quella arlecchino formata dalla compagnia statunitense Delta, da Atlantia (del gruppo Benetton, gestore dello scalo di Fiumicino dove Alitalia sviluppa il 40% della propria attività) e il gruppo Fs, il cui maggior azionista è appunto il patrio Tesoro.
Gli spettatori di questa telenovela (che altro purtroppo non sono che gli italiani) hanno finora pagato un salatissimo ticket. Per anni la Repubblica italiana ha infatti gettato in questa fornace alata qualcosa come nove miliardi di euro, chiamandoli eufemisticamente “investimenti” diretti o indiretti. Salvo errori ed omissioni, a partire dal 1975 si possono contare dieci aumenti di capitale effettuati dall’Iri, tre dal ministro dell’Economia, due da Fintecna, due prestiti ponte sempre del Mef (che ha segnato questi crediti sul ghiaccio) e due interventi di Poste Italiane.
Gli amanti del genere cinematografico hanno peraltro profumatamente retribuito anche gli attori e le attrici di questa telenovela. Per carità, tutti hanno diritto ad un sostegno di disoccupazione. Però due miliardi finora erogati in sussidi sono obiettivamente sproporzionati: non regge infatti sotto il profilo dell’equità il confronto tra piloti ed assistenti di volo (fino a 10mila euro al mese) coi loro colleghi che sono rimasti a terra avvinghiati alle catene di montaggio (massimo 1.100 euro di cassa integrazione).
In più i primi festeggiano per sette anni (numero magico per eccellenza secondo la cabala) mentre per i secondi gli anni sono due (numero evocativo del due di picche con briscola cuori). E non vale certo l’adagio: “la festa è finita!” in quanto è in arrivo un nuovo provvedimento di proroga della Cig, tanto sono caldi le stilografiche di governo, sindacati e azienda per la firma dell’accordo.
Quasi dozzinale poi rammentare che queste risorse (a conti fatti quasi 400 milioni di euro) sono più del doppio del finanziamento annuo per la lotta alla povertà con il sostegno di inclusione attiva.
Gli appassionati del genere infine possono anche apprezzare l’effetto speciale escogitato per trovare le risorse finanziarie. Anziché far ricorso ai tradizionali accordi in cui la cassa integrazione è pagata da imprese e lavoratori (roba fuori moda della seconda metà del Novecento), il settore aereo è entrato negli anni Duemila con una formula 2.0: la cassa del trasporto aereo la paga chi oltrepassa il filtro dei controlli aeroportuali. Cinque euro (in fondo il costo di un cappuccino e una brioche) possono sembrare un’inezia. Però se si considera che quella è una prestazione imposta (e quindi un balzello dello Stato che aumenta la pressione fiscale complessiva del nostro Paese) le cose assumono un’altra prospettiva.
Visto da fuori però questo spettacolo è abbastanza demodé. Nell’Europa dell’alta velocità, della banda larga e delle compagnie low cost forse non ha più alcun senso aggrapparsi alle cosiddette compagnie di bandiera nazionali (e a improbabili gruppi di patrioti, figura nata qualche anno addietro dalla fervida mente di un premier che peraltro viaggiava coi voli di Stato). I vantaggi di mantenere una compagnia di bandiera sono tutti da decifrare e scoprire. Il costo invece è di una spaventosa evidenza e soprattutto non più sopportabile da un Paese che dal 2007 è in perenne crisi economica e finanziaria.
E’ arrivato il momento che il popolo italiano si accomiati dalla sua compagnia di bandiera (che tanto l’ha fatta sognare) e la lasci correre con le sue gambe verso il suo destino.