Genova avrà ancora una banca? Si avvicina l’ora della verità per la tormentata Cassa di Risparmio del capoluogo ligure che attende per venerdì 20 settembre il verdetto degli azionisti sull’aumento di capitale da 900 milioni di euro, dove l’unico piano b è la liquidazione. Il pallino è ancora una volta nelle mani di Vittorio Malacalza da Bobbio. Lui che era partito sessant’anni fa dalla provincia di Piacenza vendendo sanitari con la ditta di famiglia e come ultima avventura imprenditoriale ha scelto di scalare una delle banche più antiche del mondo, con un investimento complessivo di oltre 400 milioni di euro, poco più di quanto gli era fruttata la guerra in Pirelli con Marco Tronchetti Provera.

“Ero il miglior venditore di cessi”, sintetizzò così i suoi primi passi da imprenditore scherzando in un’intervista al Sole 24 Ore nell’estate del 2015, alla vigilia di una nuova ricapitalizzazione dell’istituto di cui già deteneva quasi il 15 per cento. “Forse mi chiameranno banchiere, ma io resto un imprenditore – dichiarò ancora al quotidiano di Confindustria – Anche perché per me, tra fare impresa o fare banca, non cambia nulla: al posto dei beni da scambiare, c’è il denaro. E la banca deve dare la giusta soddisfazione a chi questo denaro lo dà, ovvero i soci azionisti, e chi lo riceve, ovvero i clienti. Questo è il mio unico obiettivo: tutti gli stakeholder devono essere soddisfatti. Se riusciamo in questo sforzo, questa banca potrà essere rilanciata”.

A distanza di quattro anni Malacalza si ritrova a fare i conti con il fatto che tanto denaro non gli è mai bastato a fare completamente sua la banca. Anzi, l’investimento si è via via assottigliato di anno in anno, di ricapitalizzazione in ricapitalizzazione. Fino a quando, a dicembre 2018, ha esercitato l’unico vero primato conquistato in banca, dicendo stop all’ennesimo piano di salvataggio e ha così aperto la strada al commissariamento. Nove mesi dopo si torna al tavolo e il boccino è ancora in mano all’imprenditore di Bobbio che sta di fatto tenendo in scacco da settimane Genova, una città che non lo ha mai fatto sentire fino in fondo a casa. Nonostante le ottime relazioni con la Curia e il fatto che i suoi buoni uffici non siano circoscrivibili alla sola Carige, come testimonia la sua pronta risposta alla chiamata al capezzale del San Raffaele di don Verzè, accanto al cardinal Bertone e a Giuseppe Profiti nei giorni più bui della crisi del 2011.

Le sue intenzioni in merito alle sorti della banca sono avvolte nel più stretto riserbo. E alla vigilia dell’assemblea, con le indiscrezioni diffuse dall’Ansa di un incontro di “esponenti della famiglia” con il capo della vigilanza della Bce Andrea Enria, non si può escludere a priori un nuovo no alla ricapitalizzazione dell’istituto. Costi quel costi. Anche il rischio che la messa in liquidazione di Carige metta nei guai pure il gruppo del suo primo azionista, la Malacalza Investimenti. E nonostante dire si non comporti per l’imprenditore l’obbligo di rimettere mano al portafoglio sottoscrivendo l’aumento, mentre dire no significa un perdita certa.

E pensare che per Malacalza questa avventura era partita con presupposti decisamente diversi: alla fine del 2014, l’imprenditore dell’acciaio aveva pensato bene di scendere in campo per evitare che Carige finisse in mano a dei fondi e venisse magari venduta a pezzi. Malacalza aveva quindi indossato i panni del cavaliere bianco della sua superba città adottiva, rilevando la quota della Fondazione Carige (10,5%) e diventando il primo azionista della banca messa in ginocchio dalla disinvolta gestione di Giovanni Berneschi. L’operazione era costata poco più di 66 milioni, ma l’industriale piacentino che ha fatto fortuna con il trading dell’acciaio targato Duferco contava di far fruttare il suo investimento. Al punto che successivamente aveva messo mano di nuovo al portafoglio per rafforzare la sua partecipazione in occasione di un nuovo aumento di capitale. E ha finito per accumulare un pacchetto del 27,55% del capitale dell’istituto di credito. Con un obiettivo ben preciso: “Andremo a rafforzare una strategia che ci porterà ad essere una banca del territorio, nel vero senso della parola. Cioè che aiuti il territorio a crescere”, aveva spiegato a Repubblica il 9 dicembre 2016. In realtà però, come spesso accade, fra il dire e il fare c’è di mezzo il mare.

Tanto mare da non ritrovarsi nelle strategie dei manager da lui stesso nominati e caduti come birilli uno via l’altro. “Il dissenso che ho avuto con alcuni amministratori prescelti per guidare la banca ha evidenziato certo non il mio cattivo carattere, bensì la difficoltà di imprimere una svolta radicale alla banca e stabilire nuove regole di trasparenza”, ha detto a tal proposito in una lettera al direttore del Sole 24 Ore datata 30 agosto 2018. L’impressione è stata però che il tocco magico di Malacalza si sia interrotto. Quello che negli anni ’90 lo aveva portato a mettere su la Trametal, punto di forza del suo impero con un impianto anche in Inghilterra. Erano seguiti accordi con gruppi internazionali come la cinese Baosteel fino a conquistare la divisione di magneti superconduttori della Ansaldo per arrivare ad un colpo di autentica fortuna: poco prima che la crisi che travolge il settore, l’industriale vende tutto al gruppo ucraino Metinvest in un’operazione dal valore superiore al miliardo di euro.

Di qui il denaro investito poi in Pirelli acquistando prima il 2,5% di Camfin, operazione finalizzata a diventare il secondo azionista dopo Marco Tronchetti Provera. La Malacalza Investimenti non si ferma però qui: nel luglio del 2010 possiede il 12,3% di Camfin e il 30,4% di Gpi. Il connubio con Tronchetti Provera non durerà però a lungo e, dopo una lunga battaglia legale, porterà Malacalza alla conversione delle azioni nel 6,98% di Pirelli nel 2013. Il divorzio si conclude nel 2015 con un guadagno netto di oltre 320 milioni di euro.

L’investimento in Carige è dello stesso periodo. Per i Malacalza oggi lo scotto è notevole. Se la ricapitalizzazione venisse approvata e loro decidessero di partecipare si troverebbero a buttare altri soldi nella fornace genovese per trovarsi in mano molto meno della quota attuale. La banca passerebbe sotto il controllo del Fondo interbancario che poi girerebbe le azioni (con lauto sconto) ai trentini di Ccb destinati a diventare i nuovi padroni dell’istituto. Che schiaffo per la banca di una città di tutt’altra posizione geografica che si chiama la superba! Ma la messa in liquidazione otterrebbe effetti non meno ingloriosi: sopra alle conseguenze per la famiglia Malacalza e le sue attività, ci sarebbe il grosso guaio di un buco da 9 miliardi di euro. Tanto per il governo quanto per una città e una Regione, quella di Giovanni Toti, che non hanno ancora chiuso i conti con il crollo del ponte Morandi. E a Vittorio Malacalza, all’alba degli 83 anni, toccherebbe dire definitivamente addio ai panni di cavaliere bianco, per indossare quelli di affondatore.

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