Mentre scrivo arrivano le immagini dello sciopero globale del clima di venerdì 20 marzo. Decine di migliaia di persone, in migliaia di città. Berlino straripa di ragazzi, ma anche fuori dall’Europa, dall’Australia al Bangladesh, i giovani dei Fridays For Future scendono in piazza per gridare la loro paura di un futuro devastato e senza risorse. E la partecipazione sarà ancora più eclatante venerdì 27 prossimo, se si pensa che oltre un milione di studenti di New York hanno avuto dal sindaco l’autorizzazione per scioperare.
Insomma, se la mia generazione, e forse ancora più la precedente, protestava per la giustizia sociale e la lotta alle diseguaglianze, i nati nel duemila sembrano avere una sola causa: l’ambientalismo e la lotta al cambiamento climatico. Eppure, a ben guardare si tratta di uno stesso obiettivo. Lo ha spiegato bene Carola Rackete nell’intervista, bellissima e anche commovente, che ha rilasciato a Piazza Pulita su La7 giovedì scorso.
Anzitutto perché a causare i disastri ambientali sono stati, e sono tuttora, i paesi più ricchi, che producono quelle emissioni inquinanti che poi causano devastanti siccità in paesi come l’Africa, costringendo le persone a muoversi (anche se, come ha ricordato la Rackete, chi si sposta è una percentuale minuscola: la stragrande maggioranza non ha soldi per salire sui barconi). In secondo luogo, perché le conseguenze del cambiamento climatico colpiscono i più deboli: i poveri, i malati, gli anziani. Basti pensare a chi oggi non ha la possibilità di allontanarsi dalle città bollenti a causa delle ondate di calore e deve restare o per una malattia cronica o perché, appunto, è povero e non possiede seconde case o soldi per andare in vacanza.
Per questi motivi, oggi la lotta per la giustizia sociale e quella per il cambiamento climatico – e insieme la difesa dei diritti umani e sociali – sono intrecciate e lo saranno sempre di più perché, se è vero che la crisi ambientale colpirà tutti, è vero che chi ha più soldi può comunque proteggersi di più, o migrare in un posto migliore. E non è un caso, allora, che nel mondo al movimento creatosi grazie a Greta Thunberg si stanno unendo anche i sindacati, con la conseguenza importantissima di coinvolgere nella battaglia per il clima milioni di lavoratori.
Cosa succede in Italia? In questi mesi la Cgil si è progressivamente avvicinata alla causa climatica. A marzo scorso, la vicesegretaria Gianna Fracassi ha appoggiato lo sciopero globale del clima degli studenti, parlando della centralità della decarbonizzazione e del tema della “giustizia climatica”. Un mese dopo la Cgil ha consegnato a Greta Thunberg la tessera onoraria della Cgil. Pochi giorni fa, la Flc Cgil ha aderito al global strike del 27, promuovendo un grande evento pubblico al Cnr di Roma nel quale si parlerà della crisi climatica.
Sono passi importanti, ma non è abbastanza. E per capirlo basta ascoltare il segretario generale Maurizio Landini, che nella sue dichiarazioni e interviste quasi mai parla di crisi climatica e ambiente, focalizzandosi sempre sugli stessi punti: difesa dei salari, (sacrosanta) lotta agli incidenti sul lavoro, meno tasse per pensionati e dipendenti, lotta alla legge Fornero. Non c’è ancora, in altri termini, la percezione che l’ambiente sia letteralmente un valore, equivalga cioè a moneta contante. Manca ancora la decisione di lottare dentro le aziende per renderle più sostenibili, proprio come si lotta per renderle più eque.
È assente, ancora, l’idea che la lotta climatica deve precedere e inglobare tutte le altre, per cui prima di ridurre le tasse o mandare in pensione in anticipo le persone sarebbe opportuno pensare se quegli stessi soldi non possano essere usati per rendere l’ambiente in cui i lavoratori vivono, e i loro figli, più vivibile e meno soggetto a crisi ambientali e relativi rischi. Si è ancora ancorati, seppure per difendere i più deboli, al paradigma della crescita.
E infatti la Cgil non ha mai dichiarato uno sciopero generale per il clima: si è limitata a dare la sua adesione simbolica, il suo sostegno morale alla causa. Mentre uno sciopero vero di milioni di lavoratori italiani avrebbe reso la protesta davvero visibile a tutti nel nostro paese. Il problema è questo: ai sindacati serve lo stesso cambiamento radicale di paradigma che serve alla politica, ovvero capire che la crisi climatica non è un problema in più, è la precondizione della nostra stessa sussistenza. Combattere il riscaldamento globale, in altre parole, è ciò che rende possibile di affrontare anche le altre cause.
In più, appunto, battersi per proteggere il luogo in cui viviamo significa battersi per coloro che hanno meno strumenti per difendersi. Precari, sfruttati, sottopagati, anziani con una pensione bassa, disoccupati, malati. Banalmente, senza voler semplificare, è meglio vivere con una pensione da 500 euro, ma con ondate di calore meno violente, che con una da 600, ma non sapere dove ripararsi perché le temperature sono troppo elevate. I sindacati dovrebbero trovare modo di tradurre questo concetto nelle loro richieste e nelle loro contrattazioni collettive. E, soprattutto, farsi davvero carico del problema climatico; non limitarsi ad adesioni simboliche per poi continuare nello stesso identico modo di sempre. Che oggi, purtroppo, non funziona più.