di Roberto Iannuzzi*
Come molti temevano, i risultati delle elezioni parlamentari svoltesi martedì in Israele hanno riproposto l’incertezza che dominava il panorama politico prima del voto. Nessuno schieramento è emerso vincitore, ponendo così le premesse per consultazioni estremamente complesse per formare un nuovo governo, con la prospettiva di una nuova possibile paralisi politica.
Ciò accade dopo una campagna elettorale sofferta, durante la quale il premier uscente Benjamin Netanyahu – indietro nei sondaggi – aveva fatto di tutto per elevare il livello dello scontro, rischiando di screditare l’intero processo elettorale. Sotto questo profilo, Israele si pone in effetti in continuità con molte democrazie dell’Europa occidentale (ma anche con gli Stati Uniti), dove un processo democratico sempre più in crisi appare caratterizzato dalla crescente delegittimazione dei partiti, dall’inasprimento dello scontro politico, da una paralisi decisionale sempre più marcata e da consultazioni elettorali progressivamente svuotate di significato.
A ciò si aggiunge però un contesto geopolitico ben più gravido di tensioni e conflitti, che vede Israele alle prese con un’escalation militare strisciante con l’Iran e i suoi alleati regionali, con l’irrisolta questione dei Territori occupati e con la realtà della vicina Striscia di Gaza che rimane esplosiva. Sul fronte interno va detto che, se l’aritmetica non ha espresso uno schieramento vincente, esistono senza dubbio vincitori e vinti sotto il profilo politico.
Fra questi ultimi figura Netanyahu. La sua è una sconfitta personale. Era stato lui a trascinare Israele a nuove elezioni in pochi mesi, dopo quelle dello scorso aprile i cui risultati non gli avevano permesso di formare un governo. Era stato lui a estendere al teatro iracheno gli attacchi militari contro gli alleati regionali dell’Iran, a colpire obiettivi di Hezbollah a Beirut, allo stesso tempo facendo nuove allarmanti rivelazioni sul programma nucleare iraniano. E’ stato lui a condurre una campagna divisiva, ventilando l’annessione della Valle del Giordano e demonizzando gli arabi israeliani. Tutto ciò non gli è servito.
Quando la sconfitta appariva già incombente, egli ha ribadito il proprio rifiuto di qualunque coalizione che comprendesse anche la Lista unita, guidata dai partiti arabi, da lui definiti “partiti anti-sionisti che si oppongono all’esistenza stessa di Israele come Stato ebraico e democratico”.
Ora per lui vi è lo spettro di una seria condanna per corruzione, senza che egli possa opporre alcuna immunità parlamentare. Ma vi è anche il rischio di perdere la leadership del Likud, il partito da lui guidato per lunghissimi anni.
Ciò non significa che Netanyahu uscirà di scena. Il suo sembrerebbe essere un astro declinante, ma egli è intenzionato a fare di tutto per rimanere in lizza nella competizione per il nuovo governo. La sua parziale sconfitta non significa peraltro una vittoria della sinistra. Il partito Kahol Lavan guidato dall’ex capo di stato maggiore Benny Gantz, suo grande avversario in queste consultazioni, è al più un partito centrista, anche se più inclusivo del Likud.
Definito da qualcuno “il partito dei generali” per aver messo insieme, oltre a Gantz, altri due ex capi di stato maggiore come Moshe Yaalon e Gabi Ashkenazi, Kahol Lavan (cui si è unito il partito Yesh Atid di Yair Lapid) aveva stretto un accordo post-elettorale con il partito ultra-nazionalista Israel Beytenu di Avigdor Lieberman.
Quest’ultimo è il vero ago della bilancia degli scenari post-elettorali, visto che nessuno schieramento di governo potrà fare a meno dei seggi del suo partito. Lieberman si è detto favorevole a un governo di unità nazionale che includa anche il Likud, ma senza Netanyahu come premier. Egli ha posto altre condizioni, in particolare a danno dei partiti ultra-ortodossi alleati del premier uscente. Altro suo obiettivo prioritario è tenere fuori dall’esecutivo la Lista unita guidata dai partiti arabi, che però in questo modo diventerebbe per la prima volta il maggiore partito di opposizione. Il successo di questa formazione, sotto la leadership di Ayman Odeh, rappresenta una delle principali svolte delle presenti elezioni. Gli sforzi di Netanyahu di sopprimere il voto arabo si sono rivelati un boomerang: l’affluenza araba è salita al 60%, dal 49% dello scorso aprile.
Se il panorama appena descritto prefigura un’enorme incertezza politica, e addirittura non esclude il ricorso a una terza tornata elettorale per sbloccare un’eventuale impasse, poco è destinato a cambiare sul fronte dei Territori palestinesi e della contrapposizione tra Israele e Iran. Se si esclude la sinistra ormai ridotta all’irrilevanza, rispetto ai Territori occupati il panorama politico israeliano si divide fra “pragmatici” (come Gantz) che prediligono il mantenimento dello status quo, e coloro che manifestano aperte simpatie annessioniste.
Se dovesse materializzarsi, il piano di pace del presidente americano Donald Trump, a più riprese annunciato e fortemente osteggiato dai palestinesi, potrebbe favorire lo scoppio di nuove crisi, in particolare a Gaza. Neanche riguardo all’Iran cambierà molto: sulla necessità di contrastare Teheran vi è un consenso consolidato nel panorama politico israeliano. Gantz alla guida del governo, tuttavia, potrebbe ricorrere a un linguaggio meno aspro abbandonando i toni più controversi di Netanyahu.
* Analista di politica internazionale, autore del libro “Se Washington perde il controllo. Crisi dell’unipolarismo americano in Medio Oriente e nel mondo” (2017)