Stefano Cucchi “non è caduto accidentalmente, è stato pestato” e proprio quella caduta gli “è costata la vita”. Anche perché nei sei giorni successivi “perse 6 chili, non mangiava per il dolore, non riusciva neppure a parlare bene”. Non solo. “Non fu uno schiaffo, ma un pestaggio degno di teppisti da stadio contro una persona fragile e sottopeso. Di questo stiamo parlando, non di altro”. Le parole del pm Giovanni Musarò risuonano nell’aula bunker di Rebibbia durante la sua requisitoria del processo per la morte di Stefano Cucchi, arrestato il 15 ottobre 2009 per droga e deceduto una settimana dopo all’ospedale Sandro Pertini di Roma. Il pubblico ministero ha sottolineato che, quando venne arrestato, il giovane romano pesava 43 chili e quando morì ne pesava 37: “Questo notevole calo ponderale è riconducibile al trauma dovuto al violento pestaggio, non certo a una caduta come si disse all’epoca. Ci furono due battibecchi con D’Alessandro – ha detto Musarò – Dopo un calcio e uno spintone Cucchi cade e sbatte a terra il sedere e la nuca, prende un calcio violentissimo in faccia o alla nuca che gli provoca una frattura alla base del cranio”.
E proprio dalla caduta riparte per ripercorrere una vicenda lunga dieci anni, tortuosa e costellata di falsi: “Non è semplice sintetizzare due anni di un processo così complicato, dopo la morte è iniziata una seconda storia, nel frattempo ci sono stati altri processi con imputati diversi, per il pestaggio furono accusati prima tre agenti della penitenziaria e poi i medici dell’ospedale Pertini”, ha ricordato Musarò sottolineando che “non bisogna avere paura della verità anche quando è scomoda”. Adesso sul banco degli imputati ci sono 5 carabinieri: Francesco Tedesco, il supertestimone che, a nove anni di distanza, ha rivelato che il geometra 31enne venne ‘pestato’ da due suoi colleghi, Alessio Di Bernardo e Raffaele D’Alessandro, accusati come lui di omicidio preterintenzionale. Tedesco è accusato anche di falso e calunnia insieme con il maresciallo Roberto Mandolini, mentre Vincenzo Nicolardi risponde di calunnia nei confronti di agenti della polizia penitenziaria, imputati e assolti nel primo processo.
“Non possiamo fare finta di non capire che quel processo kafkiano – ha aggiunto Musarò riferendosi al primo procedimento, con imputati i medici dell’ospedale Sandro Pertini (ancora in corso) e, per il pestaggio, tre agenti penitenziari poi assolti – è stato frutto di un depistaggio messo in atto perché si stava giocando un’altra partita truccata all’insaputa di tutti”. Il riferimento, chiaro, è all’inchiesta sui presunti insabbiamenti che vede indagati 8 militari dell’Arma. “Tutto quel processo kafkiano con imputati messi a posto dei testimoni, catetere messo ‘per comodità’ e fratture non viste dai medici è stato frutto di un depistaggio”, ha proseguito definendolo “scientifico”. “Nel verbale di arresto – ha spiegato Musarò – Mandolini inserì per Cucchi la dicitura ‘senza fissa dimora’. Ma questo lo dice Mandolini. Per questo il giudice applica la misura in carcere. E se a Cucchi fossero stati dati i domiciliari, questo processo non lo avremmo mai fatto – ha aggiunto – Questo giochetto del ‘senza fissa dimora‘”. Musarò ha anche ricordato che “invece sono state fatte perquisizioni domiciliari per Cucchi, si è parlato di ricerca della droga nella sua dimora. E si è detto che Cucchi conviveva con la madre“.
“Non è nella fisiologia di un processo che gli imputati siedano sul banco dei testimoni ed i testimoni al posto degli imputati”, ha sintetizzato il pubblico ministero parlando alla presenza anche del procuratore facente funzioni Michele Prestipino. Poi Musarò ha ricordato le parole del detenuto Luigi Lainà, che incontrò Cucchi nel centro clinico di Regina Coeli la notte tra il 16 e il 17 ottobre 2009, quelle del carabiniere Riccardo Casamassima, decisive per la riapertura dell’inchiesta e della moglie di uno degli imputati. “Si sono divertiti a picchiarlo”, disse Lainà spiegando che Cucchi gli aveva detto di “essere stato picchiato da due carabinieri” ma aggiunse che disse di riferire che le ferite erano “causa di una caduta”.
Cucchi, aggiunse ancora Lainà, “stava proprio acciaccato de brutto, era gonfio come una zampogna sulla parte destra del volto”. Cucchi, ha sintetizzato il pm, “lascia una sorta di testamento al detenuto Luigi Lainà. Sa di essere passato tra le mani di quasi 20 carabinieri e dà a lui un’indicazione precisa: a pestarlo sono stati due carabinieri della prima Stazione dalla quale era passato. Stefano Cucchi ha parlato con la voce di Lainà”. Riguardo a Casamassima, invece, Musarò ha ricordato le sue parole: “Hanno massacrato di botte un arrestato, non sai in che condizioni lo hanno portato”. Nel 2015, il supertestimone del processo riferì poi che il maresciallo Mandolini disse che “cercavano di scaricare la colpa su alcuni agenti della penitenziaria”. Il pm ha fatto sue nella requisitoria anche le frasi intercettate da Anna Carino, ex moglie di Raffaele D’Alessandro: la donna ricorda di come D’Alessandro si fosse vantato delle botte date a Cucchi (“Quante gliene abbiamo date, quello era solo un drogato di merda”). Secondo il suo racconto, l’ex marito le aveva detto di un pestaggio feroce nel corso del quale aveva sferrato al geometra un violento calcio e una spinta, a seguito di cui era caduto rovinosamente.