“Nello scorrere lento dei mesi, quelli tra l’interminabile tramonto degli anni Cinquanta e l’alba frenetica degli anni Sessanta, quasi che un decennio fosse collegato con la catena a un passato antichissimo e il decennio successivo a una speranza d’irrefrenabile modernità, e così effettivamente avvenne in buona parte dell’Italia, insomma in quel breve periodo di mezzo, qui da noi, a Paesenovo, non accadde niente di nulla, tanto che a vederci pareva fossimo gente pronta a far torto all’avanguardia, noi!“.
Un libro totale, dove la musicalità di un linguaggio popolare si mescola sapientemente con un’approfondita analisi sociologica e storica di un territorio, una linea di mezzo slabbrata e assorbente tra Friuli e Veneto. Si tratta di Pane e ferro. Il Novecento, qui da noi, di Massimiliano Santarossa (Biblioteca dell’Immagine).
Siamo a Paesenovo, nome di fantasia di un borgo di poche anime dove, in un percorso temporale di oltre cento anni, da una generazione all’altra, contadini che come bestie arrancano alla conquista di una dignità diventano improvvisamente operai, ugualmente sfruttati. È la storia dei metalmezzadri, di terre aride e umidità, di fatiche estreme di braccianti con un futuro ipnotico in cui vige la regola padronale che l’unico scopo nella vita è quello di tenere sotto controllo un mandrino.
Pane e ferro sembra uno spaccato da prima rivoluzione industriale senza il carbone, un’’epopea famigliare e sociale del Novecento veneto e friulano, un omaggio ai dimenticati della Storia, agli scarti sputati dal progresso, e che il progresso – ironia della sorte – hanno sostenuto con le loro braccia e le loro schiene.
Già nelle epigrafi iniziali è evidente lo studio letterario e umano seguito dallo scrittore friulano: Louis-Ferdinand Céline, Antonio Gramsci, Pier Paolo Pasolini, ma soprattutto Tito Maniacco, che con il suo monumentale I Senzastoria ha senza dubbio tracciato la rotta per una narrativa popolare che vede il Nordest e la sua gente protagonisti. C’è anche qualcosa dell’Orwell di Down and Out in Paris and London e del metodo zoliano di analisi scientifica della società. Un naturalismo costruito con un linguaggio contemporaneo, che affonda però le proprie radici nella tradizione.
Pane e ferro, con il supporto di appendici, note, liriche, cronologia del Novecento del Nordest, è un libro bellissimo, importante, impegnato e coraggioso. Un testo utile per capire ciò che siamo, perché un territorio è diventato quello che è oggi. Avremmo bisogno di più Santarossa in Italia: più sudore, rabbia e intelligenza, e meno salotti a parlare di fuffa.
“Avevo la pelle delle mani ancora tenera, da spaccarsi con niente; la crosta operaia sarebbe arrivata dopo mesi, le pelli più delicate anche dopo un anno; erano mani poco più che bambine, abituate ai quaderni e ai colori pastello, giallo rosso verde blu, e ai lavori in casa e in stalla, ma per fare i veri calli del ferro la carne deve spaccarsi, guarire, spaccarsi nuovamente, riformarsi, spaccarsi per la terza volta e oltre al sangue spurgare pus, giallastro, e ancora un paio di volte, e solo allora puoi dire d’avere messo la crosta d’operaio. Prima è dolore. Dopo non fa male niente. E si parte affrontando il metallo e il legno e le schegge, che manco i tagli preoccupano più. Così t’accorgi per bene, proprio dalla notte al mattino, che il destino t’è venuto addosso come un treno, e in anticipo!“.