Tecnologia

L’obsolescenza programmata ha enormi costi ambientali. E per me è un vero e proprio crimine

Mi sono già occupato in passato dell’obsolescenza programmata, definendola anche “un crimine contro l’ambiente”, perché essa accelera terribilmente la produzione di rifiuti.

Anche se, ad onor del vero, non è solo l’obsolescenza programmata un crimine, ma anche il fatto che spesso convenga – dal punto di vista strettamente economico – cambiare un prodotto piuttosto che farlo riparare. Così come, mi viene da aggiungere molto banalmente, il fatto che i pezzi di ricambio siano oggi più grandi di quelli che erano un tempo: pensiamo alle carrozzerie delle auto.

Ma torniamo all’obsolescenza programmata in senso stretto, indotti a questo da uno studio pubblicato giusto nei giorni scorsi dall’European Environmental Bureau (Eeb, una rete esistente dal 1974 di oltre 143 organizzazioni di cittadini ambientalisti con sede in oltre 30 Paesi), studio in cui si stima per la prima volta l’impatto climatico dei principali prodotti di elettronica domestica (tipo lavatrici, aspirapolvere, televisori, cellulari) in base al loro utilizzo/durata e all’energia consumata per realizzarli.

Il documento dimostra ad esempio come prolungare la durata di vita di smartphone e altri dispositivi elettronici di un solo anno consentirebbe all’Unione europea di evitare quattro milioni di tonnellate di emissioni di CO2 l’anno, fino al 2030. Come togliere due milioni di automobili dalle strade per un anno. Cifre elevate, dovute alla grande quantità di energia e risorse coinvolte sia nella produzione e distribuzione di nuovi prodotti e sia nello smaltimento/rottamazione di quelli vecchi.

Nello specifico, la produzione di smartphone europei risulta quella con il maggiore impatto sul clima tra i prodotti analizzati, ma se si include l’intero ciclo di vita, quindi anche l’energia necessaria all’alimentazione, le lavatrici svettano in cima alla classifica delle maggiori emissioni. Lo studio evidenzia anche come la durata dei prodotti elettronici sia drammaticamente breve: gli smartphone durano in media solo tre anni, i computer portatili sei. E la percentuale di dispositivi difettosi sarebbe cresciuta dal 3,5% del 2004 all’8,3% del 2012.

Bene lo studio dell’Eeb, bene avere la conferma con dati alla mano di qualcosa che già immaginavamo. Ma a livello normativo si fa qualcosa per costringere il business a guadagnare un po’ meno, perché di questo in fondo si tratta? Proprio l’Unione europea sono anni che deve emettere una direttiva al riguardo e così pure l’Italia, dove i partiti latitano. Unica eccezione, il M5S che ha fatto votare in Commissione Attività Produttive della Camera una risoluzione che obblighi i prodotti commercializzati sul territorio nazionale a riportare “chiaramente visibile e leggibile anche la durata del prodotto”. Francamente, ben poca cosa…

Concludo con una frase di Serge Latouche, che ha scritto un agile libretto sull’usa e getta: “La società cosiddetta sviluppata si fonda sulla produzione di massa del deperimento, cioè sulla perdita di valore e il degrado generalizzati tanto delle merci quanto degli uomini”.