La nuova frontiera dell’emergenza migratoria in Nord Africa oltre alla Libia adesso è anche, e soprattutto, la Tunisia, paese dal quale secondo le statistiche del Viminale arriva il maggior numero di migranti lungo la rotta del Mediterraneo centrale: oltre 1.700 sui 6.600 sbarcati in Italia da inizio anno. Con la Tripolitania ridotta a ferro e fuoco, dove milizie e gruppi di criminali si spartiscono il business degli africani in fuga verso l’Italia e l’Europa, nel corso dell’ultimo anno la Tunisia ha accolto un numero impressionante di persone, tutte localizzate nelle regioni di Tatouine e soprattutto Medenine, vicine al confine libico. Solo la Mezzaluna rossa ne ha prese in carico quasi 10mila da inizio anno.

IlFattoQuotidiano.it aveva raccontato il fenomeno quattro mesi fa, nel frattempo le cifre rischiano di finire fuori controllo. Il problema sta presentando un conto salato per le autorità. Ieri la guardia costiera tunisina ha informato di aver stoppato 75 persone in 5 diverse partenze irregolari verso l’Italia. Sono i tentativi di sbarco fantasma che nel 2019 hanno portato in Italia più di 5mila persone. Venerdì il ministro degli Esteri Luigi Di Maio ha annunciato che subito dopo la nascita del nuovo governo tunisino andrà proprio in Tunisia per “accordi sui rimpatri“.

Il sistema, infatti, nonostante la buona volontà, è al collasso. La prima conseguenza è l’abbandono a loro stesse di migliaia di persone tra chi non è più nel centro Unhcr, a cui è stata rifiutata la richiesta di status di rifugiato, e a chi rifiuta il rimpatrio assistito nel Paese d’origine da parte dell’Oim. Soltanto la Mezzaluna Rossa, che si occupa della prima accoglienza, in questi giorni sta fornendo assistenza ad oltre 1300 stranieri, in prevalenza africani (ma ci sono anche bengalesi e pakistani) nei centri dei due capoluoghi e della località marittima di Zarzis.

I migranti ricevono vitto e alloggio e possono entrare o uscire in piena libertà, ma soprattutto andarsene quando vogliono. Si tratta di centri di transito per chi decide di seguire altri percorsi alternativi ai barconi. E qui entrano in gioco le due agenzie principali dell’Onu, l’Unhcr e l’Oim. La sede territoriale centrale dell’Alto Commissariato Onu per i Rifugiati (Unhcr) si trova a Medenine e ad oggi ospita un numero di persone che supera di gran lunga le 500 unità. Gli ospiti hanno libertà di movimento, la possibilità di cucinare nelle loro stanze (il centro non fornisce pasti), ridotte a loculi di pochi metri quadrati, e aspettano l’incontro con una commissione specifica per l’ok al conferimento della qualifica di rifugiato.

Un passaggio fondamentale in vista di una possibile allocazione in alcuni Paesi europei, tra cui l’Italia, a seconda delle opportunità garantite dai corridoi umanitari. A chi, al contrario – e purtroppo sono tantissimi, quasi il 90% delle domande – viene negato lo status non resta alternativa ad una vita irregolare e di stenti, oppure il ritorno in Libia per tentare la fortuna su un barcone. Quella stessa Libia, tra Tripoli e Zuwara, da dove sono scappati per evitare le violenze non più di un anno fa.

“A me l’Unhcr non ha concesso lo status di rifugiato, la risposta lo ricevuta a luglio. Per sopravvivere faccio qualche lavoretto, in questi giorni come imbianchino, anche se nel mio Paese facevo il meccanico”. Alain Tazo Junior ha 32 anni e arriva da Osha, un villaggio del nord del Camerun: “Sono uscito da qualsiasi progetto e ho solo due strade praticabili davanti a me: o accetto la proposta di rimpatrio dell’Oim, impossibile in quanto sono perseguitato in Camerun, oppure tiro su qualche soldo, torno in Libia e riprovo la traversata in mare. Sarebbe la terza. Perché non farlo dalla Tunisia? Semplice, i prezzi qui sono molto più alti per un passaggio in mare, direi proibitivi”.

Passare settimane, mesi dentro una stanza di pochi metri quadrati, uscire ogni tanto per fare un giro a Medenine dove cercare un aiuto, porta spesso a conseguenze pesanti: “Ci sono liti e risse quasi ogni giorno – racconta Amina, giovane mamma della Guinea Conakry – ci si azzuffa per qualsiasi problema, anche il più stupido. La gente è nervosa, ci sono tensioni tra comunità e poi la fame, la disperazione e gli obiettivi di una vita più tranquilla che svaniscono. Personalmente sono in attesa di avere una risposta dall’Unhcr sulla mia richiesta di rifugiata, siamo io e mio marito, con due figlie a carico. Speriamo bene. Altrimenti, davvero non sapremmo cosa fare”.

Il domani, ossia l’incertezza di un destino per migliaia di persone costrette a passare dalle violenze e dal rischio di morire in Libia o in mezzo al mare, alle regole burocratiche e poco umanitarie fissate dalle grandi agenzie delle Nazioni Unite in accordo con gli Stati coinvolti. Regole che forniscono risposte soltanto ad alcune nazionalità, in particolare i Paesi del Corno d’Africa, oltre a yemeniti, siriani e palestinesi che però da queste parti non arriveranno mai. Per tutti gli altri, subsahriani e via discorrendo, decine di comunità, le speranze di essere portati in salvo sono ridotte al lumicino.

Restare in Tunisia, in una sorta di limbo, senza status e dunque senza documenti, non ha senso: “Durante la mia permanenza nel foyer dell’Unhcr ho assistito alla partenza di tante persone che avevano deciso di tornare in Libia, nonostante tutto. Con alcuni di loro era nata un’amicizia, è stato triste vederle partire, adesso ci teniamo in contatto, ma ho paura per loro”. Di Mariama Kamara, 29 anni della Sierra Leone avevamo trattato alcuni mesi fa. Dopo un viaggio rocambolesco, due tentativi sui barconi falliti e rapita per quaranta giorni, vittima di stupri di gruppo, Mariama ha scoperto di essere incinta una volta arrivata a Medenine. Oggi è madre di due gemelli nati il 30 giugno scorso, bambini frutto delle violenze che Mariama ha voluto tenere.

Per lei, almeno, è arrivata una buona notizia: “L’Unhcr mi ha concesso lo status di rifugiata, adesso aspetto soltanto di andare via da questo centro, di trovare accoglienza in un Paese europeo dove poter crescere i miei figli”. I giorni passano e da Ginevra, sede centrale dell’Alto Commissariato, non arrivano notizie. L’ultima chance di sostegno e di accoglienza per i migranti è il centro dell’Oim, l’agenzia Onu per i migranti che si occupa dei rimpatri assistiti. Anche questo organismo deve fare i conti con risorse limitate e l’assurda ristrettezza del protocollo e riesce a fornire ai migranti la possibilità di restare non oltre i 60 giorni nel centro. In questo lasso di tempo viene loro concessa l’opzione di rientrare nel Paese d’origine, soluzione non troppo gradita.

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