Quando nel 2008 nacque la mia prima figlia, la proposta caldeggiata dall’allora ministra Livia Turco di dare il doppio cognome ai propri figli sembrava cosa fatta. Tant’è vero che nel preparare le etichette per le tutine da mettere nella valigia per l’ospedale, scrissi entrambi i cognomi.

Una volta nata, l’ostetrica di turno mi disse con modi spicci: “Sì, ma quale cognome avrà la bambina?” Ricordo che mi sentii come una che avesse avanzato una richiesta fuori dal mondo, tipo una Beef Bourguignon per cena o un letto King Size in stanza.

Undici anni dopo assistiamo ancora al dibattito, riaperto dalla neo ministra Fabiana Dadone, sulla possibilità sia di dare il doppio cognome ai nascituri (senza un ordine predefinito), sia di poter sceglierne uno tra i due, dunque anche solo quello della madre.

È indubbiamente una battaglia giusta, tutt’altro che avveniristica, visto che molti paesi hanno da tempo legislazioni al riguardo. Il fatto che nel nostro paese la discussione vada avanti da quasi 40 anni dimostra come l’apparato prevalentemente maschile al governo ne abbia sempre ostracizzato una qualche applicazione, vuoi ostacolandola o non ritenendola una priorità.

Le battaglie per cui imbracciare le armi, tuttavia, credo siano altre. Come donna e madre mi sentirei più rappresentata o riconosciuta se, una volta nato il bambino, io non dovessi scegliere tra una carriera che tra mille salti mortali dovrò lottare anche solo per conservare e la resa incondizionata a una vita personale e professionale relegata ai margini.

Fintanto che gli asili saranno un privilegio per famiglie benestanti, e l’ago della bilancia sarà quale salario “salvare”, che mio figlio porti o meno il mio cognome mi appaga come donna tanto quanto ricevere una email inviata a “tutte e tutti” o “tutt*”. Ostinarsi a modificare la lingua italiana in nome di una pignoleria femminista non garantisce alle donne più riconoscimento. Sono cambiamenti di forma, non di sostanza.

Quasi sempre, un cambiamento che è più banderuola di propaganda o contentino non riesce a trasformare la forma mentis. La schiavitù negli Stati Uniti è stata abolita più di 150 anni fa, ma i neri restano tuttora cittadini di serie inferiore. Se non si cambia la mentalità razziale (o di genere), ci si ritrova con una società razzista (o sessista).

Se è vero che la mentalità di un popolo non si modifica nell’arco di una generazione, è pur vero che istituendo degli esempi – che diventano poi abitudine acquisita – si possono costruire le basi di un pensiero diverso.

Il congedo parentale obbligatorio per i papà di cinque giorni (fino a qualche anno fa era di due) è un po’ misero rispetto ai 90 della Svezia, ai 20 del Portogallo, ai 15 della Slovenia. Fintanto che la crescita della prole resta una sfera al femminile, le donne non riusciranno a scrollarsi di dosso le tracce di un’investitura non scelta, e che a molte oggi sta stretta. Se la convinzione comune continua a professare che le madri siano “per natura” più flessibili, disponibili, inclini al sacrificio o più portate alla genitorialità, continueremo a vedere quasi sempre loro a quei noiosissimi compleanni, davanti alle scuole, alle riunioni di classe, nella chat dei genitori.

Il nodo è sempre quello: la logorante sfida tra i sessi e gli auto-proclamati benefici di una parte a scapito dell’altra. E’ politico, è sociale, è culturale e su questi tre fronti bisogna operare. Finché resta cultura di massa considerare meno “uomo” un padre che smette di lavorare per crescere suo figlio, forzare le donne a scegliere tra lavoro e famiglia (anche) a causa di una discrepanza di salario o semplicemente ostinarsi ad arginare un cambiamento già in atto, dare il doppio cognome ai figli sembra una vittoria che non assicura la guerra.

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