Lo stato nascente del Fatto Quotidiano incominciò all’Unità. Stato nascente, leggiamo, è il concetto sociologico proposto da Francesco Alberoni che identifica un periodo entro il quale un gruppo di persone, accomunate da speranze condivise, si unisce per creare una forza nuova che si contrappone all’istituzione. Vediamo il quadro e partiamo dal “periodo”.
Era la fine d’agosto del 2008, se non sbaglio un venerdì, quando scrissi e consegnai il mio ultimo pezzo da direttore dell’Unità. Dove ero entrato sette anni prima come condirettore di Furio Colombo, chiamati entrambi a riportare in edicola la gloriosa testata fondata da Antonio Gramsci, chiusa da circa un anno dai Ds per una crisi nera. Dopo molte titubanze (chi me lo faceva fare?) mi decisi a lasciare l’Espresso convinto da un’immagine illuminante di Furio. “Dobbiamo accettare, l’Unità è come l’ultimo vascello che lascia un porto in fiamme”. I primi fuochi balenavano all’orizzonte. Era il febbraio del 2001 e dopo la caduta a catena dei governi ulivisti di Prodi e D’Alema, e con l’esaurirsi del tentativo Amato, Silvio Berlusconi imperversava in una campagna elettorale già ampiamente vinta. Il vascello Unità, ripresa la navigazione con vele rattoppate e ciurma perplessa, negli anni a seguire con le sue settantamila copie avrebbe rappresentato un fenomeno editoriale unico, oltre che una voce forte dell’opposizione. Perché finì quell’avventura? Rispondo con Furio: forse perché qualcuno nella solita, ambigua, autolesionista sinistra italiana fin dall’inizio aveva compreso che noi non stavamo al gioco né potevamo starci.
Non stare al gioco è un’espressione che si attaglia perfettamente all’altro protagonista dello stato nascente del Fatto. Nell’estate del 2002 fu Claudio Rinaldi, indimenticabile direttore dell’Espresso, a dirmi: “Perché non fai scrivere Marco Travaglio? Lui pensa a una rubrica quotidiana che sia una sorta di divertito stupidario sul berlusconismo trionfante”. Complice la rubrica, che si chiamerà “Bananas”, tra Marco e chi scrive comincia un sodalizio professionale cementato dall’amicizia, a sua volta imperniata sulla reciproca simpatia umana. Una condivisione che nell’Unità da me diretta dopo l’estromissione di Colombo fu così sintetizzata da Claudio Sabelli Fioretti sul magazine del Corriere della Sera: “Padellaro si trova tra l’incudine e il martello. L’incudine sono i lettori che per la rubrica “Bananas” di Travaglio vanno pazzi. Il martello sono i diessini ai quali Travaglio fa venire l’orticaria attaccandoli sul loro giornale”.
Dài Antonio, facciamo un giornale nostro ma facciamolo in fretta, mi spronava Marco avvertendo che la misura delle proteste del vertice Ds guidato da Piero Fassino era colma, anzi straripava. Lo sentivo anch‘io che con l’Unità era finita ma non mi decidevo ad andarmene finché fu il nuovo proprietario, Renato Soru, su pressante suggerimento di Walter Veltroni, leader del neonato Pd, ad accompagnarmi cortesemente alla porta.
Inizia così uno dei periodi più belli della mia vita di giornalista, libero e felice. Senza più un giornale a cui pensare ma con un giornale da costruire, pezzo dopo pezzo. Non ricordo quale celebre regista ha raccontato che il momento più esaltante di un film era immaginarlo. Riempire un taccuino di spunti, di frasi, di luoghi dove ambientare questa o quella scena. Vale per i libri e per ogni altra opera dell’ingegno: come è bello crogiolarsi nel sogno di ciò che sarà. E sognare insieme a chi non starà lì a ripeterti che la carta stampata è finita e che i tuoi risparmi faresti bene a tenerli sotto il materasso invece che bruciarli in un’impresa morta in partenza.
In tanti ci hanno accompagnato in questi dieci anni, con amicizia, generosità e competenza, e non mi basterebbe un volume per ringraziarli tutti. Farò i nomi dei primi “sognanti”, perché la loro benedetta follia è stata fondamentale per procedere nei giorni cupi quando quel famoso taccuino mi sembrava una presuntuosa accozzaglia di vane illusioni. Marco Travaglio, Cinzia Monteverdi, Peter Gomez, Marco Lillo. E poi Nuccio Ciconte, Vitantonio Lopez e Giorgio Poidomani, il nostro ministro del tesoro senza tesoro.
Feci (facemmo) una succinta lista delle cose che avrebbero reso il “nostro” giornale diverso. Cercare di non essere noiosi. Cercare di non essere scontati. Cercare le notizie che gli altri non hanno (o non pubblicano). Santa ingenuità: non erano forse i solenni principi che ogni testata s’impegna a perseguire nell’editoriale del primo giorno? Spesso disattesi il giorno dopo? Poi arriva il momento di mettere nero su bianco. Nei primi mesi del 2009 con Paolo Residori c’incontriamo alla fermata Cipro della metro A di Roma. Dove arrivo con la mia Alfa metallizzata trasformata in ufficio mobile. Sul sedile posteriore c’è una specie di archivio incasinato: fogli sparsi e tante cartelline verdognole con i curricula dei possibili assunti. Perlopiù giovanotti disoccupati che quando spiego loro il progetto hanno l’espressione un po’ cosi di chi sta pensando: mah proviamoci anche con questi, sarà un altro buco nell’acqua ma in fondo che ho da perdere? A Residori (che avevo conosciuto all’Espresso, apprezzato grafico e communista col pugno chiuso) avevo dato poche e confuse indicazioni. Volevo un giornale dai caratteri duri, aggressivi; che facesse subito capire ai lettori di che pasta feroce eravamo fatti. Lui smonta e rimonta finché ecco il risultato: una via di mezzo tra un bollettino bielorusso all’epoca della Rivoluzione d’Ottobre e la prova di stampa di un tipografo ubriaco. I font bastoni dei titoli fanno male soltanto a guardarli mentre i colori che virano tutti sul rosso sanguinaccio grondano minacciosi sdegno e rabbia. Fantastico. Seduti sulle panchine di marmo della stazione, correggo con un pennarello blu le prove d’artista che il geniale compagno Residori mi sottopone. Sembriamo un paio di disturbati mentali in libera uscita.
Quell’estate sarà esaltante. Giriamo l’Italia per promuovere il nostro prodotto e dappertutto ci aspettano in tanti. Sono attirati dalla presenza di Marco Travaglio, accolto come una rockstar. Ma l’idea di un giornale senza padroni (ma con una proprietà), senza soldi pubblici (ma con i bilanci in ordine), senza collari di partito e che “non farà sconti a nessuno” (ripetiamo come un mantra), crea entusiasmo.
Dieci anni dopo non saprei dire se quell’Italia così colma di speranza e di gratitudine sopravviva o, come temo, sia evaporata nella disillusione. Allora c’era Berlusconi, e la presenza dominante di un nemico politico creava delle attese fatte su misura per il Fatto Quotidiano. Oggi, anche se intorno a noi è cambiato tutto o quasi tutto, sarebbe bello restare noi stessi anche se le nostre esistenze sono come certi arenili che stanno sempre lì anche se il mare ogni inverno ne porta via un pezzetto. Possiamo però non dimenticare perché siamo nati. E il patto di fiducia che stringemmo coi nostri lettori. E con i nostri sogni.
Nelle notti che precedono il lancio in edicola mi sveglio spesso di soprassalto. Temo per il futuro di Gomez, Lillo, Telese e i temerari che hanno lasciato un posto sicuro per un sogno. Con alcuni sarò brutalmente sincero: “Ragazzi, abbiamo i soldi per durare sì e no un anno, ma se fra sei mesi siamo sotto il punto di pareggio delle 20mila copie, chiudiamo e tutti a casa”. La data di uscita del primo numero è fissata per il 23 settembre 2009. A pochi giorni dal debutto ci sono già, incredibile, trentamila abbonamenti che cresceranno ancora. Persone che versano il loro obolo sulla fiducia che hanno in noi. E senza la certezza che il Fatto un giorno ci sarà. E se lo ameranno o magari si sentiranno ingannati. Un’esperienza unica e irripetibile, ripeto a me stesso.
Il mio primo editoriale comincia così: “La linea politica del Fatto sarà la Costituzione italiana“. Non è retorica perché la Carta repubblicana è come una zattera a cui ci aggrappiamo prima di affrontare il mare aperto. Ricordo l’attesa delle prime copie che il nostro manager tuttofare, Daniele Panetta, va a ritirare con altri eccitati volontari al centro stampa sulla Tiburtina. Verso mezzanotte il sito è già colmo di messaggi di persone che hanno letto il quotidiano online. La mattina le edicole, prese d’assalto dai lettori, espongono un cartello memorabile: “Il Fatto è esaurito”. A tutti coloro che mi hanno donato quell’emozione, dieci anni dopo posso dire solo: grazie.