A pronunciare quest frase un assistente capo, intercettato mentre parla con un collega. Entrambi erano stati convocati, nel gennaio dal Dap per rispondere del comportamento nei confronti di un tunisino
“Cioè, andare a perdere una giornata lavorativa per andare eventualmente a giustificare l’operato delle persone, per uno che bisognerebbe pigliare la tanica di benzina, buttargliela addosso e dargli fuoco”. Queste le parole di uno dei poliziotti indagati nell’inchiesta sui presunti abusi nel carcere San Giminiano parlando di un detenuto. La procura di Siena ha ipotizzato – ed è la prima volta – il reato di tortura. A pronunciare quest frase, come riporta La Repubblica, è un assistente capo, intercettato mentre parla con un collega. Entrambi erano stati convocati, nel gennaio 2019, a Firenze dal Dap – Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria – per rispondere del comportamento che lui e altri poliziotti avevano tenuto nell’ottobre del 2018 nei confronti di un detenuto tunisino.
Si tratta proprio del caso al centro dell’indagine: i 15 lo avrebbero trascinato in un corridoio del reparto isolamento e poi picchiato, dopo avergli abbassato i pantaloni. L’aggressione sarebbe continuata anche quando il detenuto era caduto a terra, con un assistente capo di 120 chili che – secondo le ricostruzioni – gli sarebbe salito addosso con le ginocchia, mentre altri due agenti lo afferravano per il collo e lo stringevano per un braccio.
Un altro detenuto ha rivelato di aver sentito le urla e aver visto la scena dallo spioncino: “Alla fine credevo fosse svenuto. Un agente, nel momento in cui si trovava a terra, diceva agli altri ‘fermi, così lo ammazzate'”. Gli inquirenti scrivono che “buona parte del personale operante si è posto in modo da creare una barriera all’inquadratura della telecamera”. Che non si sia trattato di un caso isolato lo chiarirebbero le intercettazioni degli stessi indagati: “I fatti si sono un po’ susseguiti nel tempo. Da uno sono diventati due, tre, quattro, cinque, sei“.
Le condizioni sarebbero state difficili per tutti gli altri detenuti (fra questi anche camorristi, ‘ndranghetisti e trafficanti). Secondo un testimone gli agenti di notte “entravano in tanti nelle celle e avevamo paura. In isolamento dormivamo a turno per non essere colti di sorpresa”. E un altro, ancora: “Spesso cercavano di provocare per vedere se i detenuti reagiscono”. Episodi che troverebbero conferma dalle intercettazioni fra gli stessi indagati: “Fate bene a non dormire la notte, torniamo in ogni momento, pedofili, mafiosi di merda, infami”.
Una situazione che preoccupava anche gli stessi agenti, che parlavano così dei più pericolosi: “Lui, e anche l’altro, sono mine vaganti. Perché anche lui quando va dentro perde il capo. Io te lo dico. Perde completamente la testa. Perdono la testa anche perché spesso vanno carichi, non ragionano già di loro, figurati quando vanno carichi.” Il riferimento è al fatto che alcuni fra i coinvolti fossero abituati a bere durante il servizio. Ma non solo: la dottoressa che aveva visitato il tunisino dopo il pestaggio, per esempio, è stata vittima di pesanti offese perché nel referto aveva riportato le dichiarazioni della vittima. In una intercettazione un indagato diceva: “Sto troppo nervoso. Io mi arrabbio, hai capito o no? Questo continua a fare il malandrino, l’altra sera lo stavo ammazzando, io l’ho preso per i capelli dietro al collo, ho detto io: io te la la svito la testa, uomo di merda che sei. Hai capito che io ti ammazzo qui a terra? A casa nostra fai il malandrino?”.