La legge 107/15 (la sedicente “Buona Scuola”) al comma 126 evidenzia che, per la valorizzazione del merito del personale docente, a decorrere dall’anno 2016 venga costituito presso il Miur un apposito fondo del valore di 200 milioni di euro, rinnovato di anno in anno: l’ennesima situazione in cui le scuole sono state chiamate ad esercitare il bricolage della resistenza, in assenza di specifiche e coese politiche di opposizione – mai intervenute – dopo la fiammata della primavera del 2015.

Resistenza a cosa? Al fatto che il bonus “premiale” si configura, nelle intenzioni della peggiore legge di tutti i tempi imposta alla scuola italiana, come una gratifica (dall’ultimo Ccnl il tavolo sindacale individua i criteri generali per la determinazione dei compensi finalizzati alla valorizzazione del personale) che i docenti possono ricevere o no, a discrezione del dirigente scolastico.

Sentito un “comitato di valutazione” – lo stesso dirigente, un “esperto esterno” (generalmente un dirigente “amico”), una rappresentanza di docenti, genitori e, alle superiori, di studenti – che ne definisce i “criteri” di elargizione su parametri già stabiliti dalla legge, può decidere di seguire o no quei criteri; insomma, può “elargire” il bonus stesso a suo piacimento. Si badi: il tutto in presenza della stipula di un contratto che ai docenti ha lasciato molto meno che il corrispettivo della famosa pizza settimanale a famiglia, dopo quasi 10 anni di vacanza contrattuale.

L’interpretazione della norma del 2015 è stata sostanzialmente duplice: in alcune scuole si è tentato di distribuire il bonus “a pioggia”, determinando condizioni di accesso lasche e flessibili; altrove ci sono stati dirigenti che hanno fidelizzato attraverso il bonus parte del personale docente: spiccioli (di questo si tratta, a fronte dei salari più bassi di tutti i paesi europei) in cambio di obbedienza, acquiescenza, omologazione, conformismo. Requisiti, questi ultimi, inadatti a dar vita (mediante la libertà di insegnamento) al pluralismo che la scuola pubblica deve garantire nell’interesse generale; ma certo adattissimi a rendere la quotidianità dei dirigenti scolastici tranquilla, priva di intoppi e “contrastività”. Del resto, il Renzi-pensiero era ed è in tutti i sensi puntato – nella scuola come altrove – sull’”uomo solo al comando”.

Per queste e altre ragioni, ascoltare questa mattina su Radio 1 il neoministro dell’Istruzione Lorenzo Fioramonti smontare con puntualità la retorica legata al “merito” e a una presunta valorizzazione (ah, che oltraggio all’etimo delle parole!) ed esprimere la sua avversione al bonus premiale fa tirare un piccolo respiro di sollievo. Ancora di più sentirlo articolare in maniera convincente i motivi che rendono inadeguata o ingiusta questa misura: oltre alle mortificanti condizioni salariali dei docenti italiani, incide sulle condizioni di lavoro la fatiscenza delle infrastrutture (il ministro ha fatto riferimento ai dati recentemente pubblicati di Cittadinanzattiva) o la collocazione socio-economica di studenti e territorio.

Fioramonti pare anche conoscere un dato evidente a chiunque frequenti la scuola: il percorso valutativo di un docente italiano si compone di molte fasi, strettamente e in varia misura legate al reclutamento. E aver capito che il divide et impera di una valutazione vetusta, punitiva e discriminatoria cozza inevitabilmente e inesorabilmente contro la dimensione collegiale e cooperativa dell’essere insegnanti.

Molti hanno espresso scetticismo sulla proposta del ministro di distribuire i fondi per il bonus direttamente nelle buste paga degli insegnanti: ciò porterebbe ad un aumento salariale irrisorio. Non è questo il punto. Scardinare il sistema “premiale” rappresenta un provvedimento significativo soprattutto dal punto di vista culturale e politico; porre l’attenzione su una serie di elementi (si legga, a proposito, M. Boarelli, Contro l’ideologia del merito, Laterza) su cui la scuola riflette da tempo.

L’immisurabilità del merito e – soprattutto – l’interpretazione non oggettiva che inevitabilmente esso determina: è meritevole il docente i cui studenti ottengano buoni risultati? Chi si forma? Chi investe sulla relazione e la cura? Chi non manca mai? Chi progetta o investe sulla didattica? Fioramonti evidenza queste contraddizioni – che hanno marcato il conflitto nelle scuole e con il Miur in questi anni – sostenendo che non deve e non può essere premiato ciò che fa parte già del mansionario di un docente; un docente consapevole, aggiungo io, di svolgere il proprio compito in un’istituzione della Repubblica.

Risponde l’ex sottosegretario Gabriele Toccafondi (new entry di Italia Viva, segnalatosi prevalentemente per la sua pervicace difesa della scuola paritaria, possibilmente confessionale), in una intervista che rappresenta letteralmente la summa di quanto vorremmo non ritrovare più sul nostro percorso di lavoratori della scuola (compresa l’esaltazione della “Buona scuola”).

Dopo l’anno e mezzo di purgatorio con Marco Bussetti e i cinque anni orribili della scuola targata Pd, ecco il primo atto di coerenza da parte di un ministro che appartiene ad un movimento che ha fatto parte della propria campagna elettorale sulla scuola. Ma che poco ha fatto finora per dare continuità alle proprie promesse. Speriamo che Fioramonti dia seguito al suo approccio. E lo faccia anche e soprattutto – oggi – rispetto alla battaglia più importante per l’unità culturale e politica del Paese e per l’esigibilità di eguali diritti per tutte/i, in cui è fortemente implicata anche la scuola: quella contro l’autonomia differenziata. L’appuntamento da non mancare è a Roma, Liceo Tasso, ore 10 del 29 settembre.

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