L’autunno è arrivato, per ora, in sordina. Assieme al tradizionale, furioso dibattito sulla legge finanziaria, arriverà anche una gragnuola di eventi meteo che i media – sulla base delle interviste di politici, burocrati, tecnici, scienziati e varia umanità – battezzeranno come ultracentennali? La probabilità che non accada, miracolati dallo stellone nazionale, non è elevata. E voglio subito evitare malintesi: la fortuna va comunque coltivata e rispettata.

In estate è già accaduto che qualche acquazzone particolarmente violento sia stato battezzato quale evento del tutto imprevedibile, poiché caratterizzato da frequenze centenarie o millenarie, sorvolando sulla circostanza che lo stesso argomento era stato usato per l’alluvione dell’estate precedente nel comune limitrofo. Anche se il futuro non è mai quello di una volta, in Italia il dissesto idrogeologico fa eccezione.

Ricordiamo il 1968 per molte ragioni. A lungo ho discusso l’anno scorso le previsioni del futuro fatte nel passato, proprio festeggiando i 50 anni da quell’anno memorabile. Nonostante il turbine degli eventi – sociali, culturali e politici – dalle parti nostre non mancarono le alluvioni, anche gravi. Le più disastrose colpirono il Piemonte, devastato da una catastrofe che colpì tanto le Langhe e l’astigiano, tutti territori lambiti dal Tanaro e dai suoi affluenti, quanto il biellese, il novarese, l’Ossola e il Verbano, messi in crisi dalle piene del Toce e del Sesia e dei loro affluenti.

Eccezionali veramente? Mentre il ministro dei Lavori pubblici, Lorenzo Natali, invocava davanti alle Commissioni Parlamentari riunite dei Lavori Pubblici e dell’Agricoltura e Foreste l’ineluttabilità dell’evento per via della “eccezionalità delle precipitazioni” e della “estensione dei bacini contemporaneamente interessati”, il direttore dell’ufficio meteorologico di Torino affermava che “l’intensità delle precipitazioni non era assolutamente eccezionale”. Nel 1968 furono fatte alcune previsioni giuste e molte previsioni sbagliate, ma prevedere che disastri come questo si sarebbero nuovamente verificati in quella regione non era un allarme del tutto ingiustificato. Fenomeni analoghi avevano già devastato il Piemonte altre volte – la precedente nel 1948 – e il catalogo dei disastri successivi conferma la iattura.

A scala nazionale, Ispra (Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale) segnala tuttora 12mila chilometri quadrati di aree a elevata pericolosità idraulica, il 4% del territorio nazionale. Un altro 8% sarebbe a media pericolosità. Eppure, se un disastro colpirà zone a rischio, siamo anche sicuri che politici e burocrati, tecnici e scienziati invocheranno l’alibi dell’evento “eccezionale veramente”, il sintagma reso popolare da un comico milanese: “Non era assolutamente prevedibile”. Una specifica del tutto italica al pari del “severamente vietato”.

Sono convinto che non si tratti, solo e sempre, di malafede. Dal 1640 sappiamo misurare le piogge, in virtù dell’intuizione di un abate benedettino, Benedetto Castelli, nato Antonio e collaboratore di Galileo che lo definì “uomo adornato di ogni scienza e colmo di virtù, religione e santità”. Gli italiani lo fanno in modo sistematico dal 1725, primi nel mondo, grazie ad Antonio Vallisneri, membro della Royal Society e docente padovano di Medicina. Ma lo si fa prevalentemente in un punto fisso dello spazio e con tecniche tuttora rudimentali. Per contro, proprio la tremenda variabilità nello spazio e nel tempo – caratteristica fondamentale del fenomeno – ci annebbia la vista.

Dopo un nubifragio, rispondere alla domanda “Quanto è piovuto oggi?” sembra la cosa più semplice del mondo, ma non lo è. E neppure stabilire quanto sia raro ciò che è accaduto, affinché si possano attivare ragionevoli misure di prevenzione. L’impiego del radar meteo sembrava fornire un contributo decisivo. Lo è, ma non basta. Per migliorare la precisone delle misure si stanno quindi sperimentando nuove tecnologie, su tutta la gamma dello spettro, dal sonoro alle micro-onde. Considerare esaurito il problema scientifico della misura della pioggia e della sua previsione statistica è un vecchio errore. “Pagato caro”, come canta Paolo Conte.

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