Qualche anno fa ho seguito un avvincente seminario tenuto dall’economista britannico David Blanchflower. Il seminario era tenuto a Bonn, in Germania, presso la sede dell’IZA, il più importante centro di economia del lavoro al mondo. Blanchflower dimostra in un articolo poi pubblicato nella più prestigiosa rivista economica inglese, l’Economic Journal, che in Inghilterra non c’è alcuna relazione statisticamente significativa fra il timore degli immigrati da parte delle classi lavoratrici, anche quelle più a basso salario, e il rischio di perdere il posto di lavoro o anche sperimentare una perdita salariale. L’unica variabile che incideva con la paura della classe operaia inglese era la propaganda dei partiti populisti dell’estrema destra. La sua conclusione era che l’atteggiamento degli operai inglesi che abbandonavano il partito laburista e si spostavano a destra era il frutto della propaganda, più che la conseguenza di chissà quale danno economico effettivamente subito.

Il motivo per cui gli immigrati non creano un gran danno agli operai locali è stato illustrato da un’ampia letteratura scientifica e dipende dalla scarsa sostituibilità fra locali e immigrati, che fanno lavori molto diversi tra loro. Come dicono in tanti, in linguaggio più popolare, gli immigrati fanno lavori che gli italiani non vogliono più fare. Forse solo alcune frange particolarmente prive di qualunque qualifica professionale possono subire qualche effetto avverso a causa degli immigrati.

Ha ragione, allora, Vincenzo Boccia, il presidente dell’Unione degli industriali, a sollevare il problema e a chiedere un maggior numero di regolarizzazioni. In molti settori industriali e in agricoltura, le braccia dei lavoratori immigrati sono fondamentali e senza di loro si rischia di fermare la produzione. È questo che vogliamo davvero?

La percezione di insicurezza dipende piuttosto dalla creazione di ghetti, soprattutto nelle aree periferiche delle città grandi e piccole che hanno già tanti problemi.

Ma queste sono questioni diverse l’una dall’altra che vanno affrontati con politiche e soluzioni molto diverse fra loro. Il problema della sicurezza è un problema di polizia e di integrazione. La repressione dei crimini degli immigrati manca e mancano anche i rimpatri di coloro che vivono nell’illegalità che il governo gialloverde ha promesso come un miraggio che non si è mai visto nella realtà. Molto della strategia futura sul tema dell’immigrazione dipenderà dalla capacità del governo di mettere in piedi e rodare una procedura efficace e veloce di rimpatrio per chi commette crimini sul nostro territorio.

Poi serve un modello di integrazione per gli immigrati regolari che vogliono integrarsi e che non si traduca nei ghetti di immigrati, magari nelle periferie delle città.

Come Boccia, a ben vedere, aveva ragione Tito Boeri, ex Presidente Inps, quando qualche mese fa notava che senza l’apporto degli immigrati lo Stato sociale italiano è in pericolo e che i contributi pagati dagli operai immigrati è fondamentale per pagare una serie di servizi anche agli italiani. L’immigrazione, pertanto, continuerà ad essere un canale importante.

Dispiace dire questo, ma dobbiamo dirlo fintanto che non si creeranno occasioni di lavoro per gli italiani, sia per i giovani che per le future generazioni. Se non si creano occasioni di lavoro per i più giovani e i giovani continuano ad andare via.

I giovani che vanno all’estero sono ancora un altro problema che dipende dal nostro modello di sviluppo di tipo tradizionale. Se vogliamo trattenere i nostri giovani, soprattutto quelli con un maggior livello di istruzione dobbiamo investire nell’innovazione e nella ricerca applicata all’industria. Solo così i giovani avranno più lavoro di qualità e salari adeguati al crescente costo della vita. Una riconversione ecologica dell’economia può aiutare, così come può aiutare chiedere alla Commissione Europea di riscrivere il Trattato di Maastricht in nome degli obiettivi della Strategia di Lisbona, come abbiamo detto nel precedente editoriale.

Gli immigrati non hanno nulla a che vedere con il tema dei giovani italiani che vanno all’estero. Non sono gli immigrati a spingere i giovani ad andare all’estero, semplicemente perché, come detto sopra, ancora c’è una bassissima sostituibilità fra il lavoro degli uni e degli altri, per diversità dei livelli di istruzione e di qualifica professionale.

Occorre cambiare il modello di sviluppo del paese. Passare da un’economia manufatturiera specializzata nei settori tradizionali ad un’economia più avanzata dal punto di vista tecnologico e capace perciò di creare posti di lavoro di maggiore qualità.

Il problema degli immigrati, in fin dei conti, è prevalentemente un problema di propaganda tambureggiante dei partiti di destra estrema. Di fronte ai tanti problemi sociali analizzati sopra, i partiti populisti di estrema destra hanno una soluzione one-size-fits-all: l’odio razziale. Con un gioco di specchi, hanno gioco facile a sviluppare l’odio nei confronti del diverso, dell’immigrato per alimentare i propri voti e guadagnare sempre più poltrone. Ma l’odio razziale non porta alla crescita del Pil e neppure all’innovazione e quindi non risolve il problema di quei giovani che vanno all’estero. Ben presto, la gente lo capisce e toglie il proprio consenso ai partiti populisti. Ma il problema è ricorrente se non viene affrontato in modo forte.

Già nel 2003 due decreti legislativi (D.lgs. 9 luglio 2003, n. 215 e D.lgs. 9 luglio 2003, n. 216) recepivano altrettante direttive europee di 3 anni prima contro tutte le discriminazioni. Però, da allora, quelle direttive sono state quasi lettera morta. In realtà, quelle direttive ci obbligavano a perseguire come reati tutti gli atti di razzismo, anche quelli in politica, oltre che nella società. Credo che sia venuto il momento di applicare quelle direttive davvero e impedire il razzismo in tv, negli stadi ed in ogni ambito della società. Se riuscissimo a far sentire di nuovo come scorretto il razzismo e non una male minore, faremo tutti un bel passo avanti. Poi, però, bisogna agire sulle altre leve indicate sopra per risolvere i notevoli problemi sociali che abbiamo di fronte.

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