Entrò all’Ansa quando era una specie di ‘pinocchiesco campo dei miracoli’ e la trasformò in un’agenzia seria e autorevole, modello di equilibrio e di buona scrittura. Giornalista, scrittore e docente, i suoi manuali hanno formato due generazioni di giornalisti
In cento anni di vita ha visto cambiare il mondo, in settant’anni di carriera ha visto cambiare il mestiere. Ha osservato in prima linea la fine del fascismo, l’uomo sulla Luna, la caduta del muro di Berlino. Ha vissuto l’arrivo della televisione, e poi di Internet. Ma l’essenza della professione, per lui, è rimasta sempre la stessa: il giornalismo come responsabilità e come servizio. Come passione civile. Sergio Lepri, giornalista e scrittore, oggi compie cento anni: settantatré anni con il tesserino in tasca, da un giornale clandestino durante la Resistenza, fino alla più grande agenzia di informazione italiana, l’Ansa, di cui è stato direttore per quasi trent’anni. “In una occasione lieta e importante, come il compimento del centesimo anno – gli ha reso onore con un messaggio il presidente della Repubblica Sergio Mattarella – desidero farle pervenire il mio augurio e il mio ringraziamento per il suo ruolo di protagonista nella storia dell’informazione in Italia e di punto di riferimento per generazioni di giornalisti”.
Sergio Lepri è nato a Firenze – che lo ha festeggiato con una cerimonia pubblica a Palazzo Vecchio – nell’anno di ferro, dopo la fine della prima guerra mondiale. Al giornalismo è arrivato nel 1944, “l’anno in cui è rinato”, quando venne rifondato il sindacato dei giornalisti dopo la parentesi fascista. Le date sono importanti, per chi, come lui, si è spesso occupato di storia. Si è formato durante la Resistenza, quando si lavorava con la radio abbassata per non farsi sentire in giro: “Fare un giornale e distribuirlo, a quei tempi, significava rischiare la vita”. In quel periodo nasceva l’Ansa, dove sarebbe entrato sedici anni dopo, nel 1960. Ricorda di aver trovato una redazione che era “una specie di pinocchiesco campo dei miracoli” di cui le persone avevano scarsissima considerazione. Come il guardaportone di Montecitorio, che, saputa la notizia della sua assunzione, lo aveva consolato dicendo: “…finché c’è la salute, dottò!”. Lepri ha raccolto la storia dell’Ansa in una serie di saggi sul suo sito web, insieme a lezioni di scrittura, ritratti, interventi. La grande storia dell’Italia del dopoguerra e le storie ‘piccine’, gli aneddoti quotidiani della professione. Ai redattori che assumeva ripeteva le stesse due raccomandazioni nel suo italiano perfetto, appena addolcito dall’accento toscano: “Figlioli, dovete scrivere una notizia che possa essere pubblicata sia dal Popolo democristiano che dall’Unità comunista. Cioè una notizia che sia notizia, che racconti il fatto, senza interpretarlo“. La seconda raccomandazione è diventata proverbiale: “Non conosco le sue idee politiche e non le voglio conoscere. Soprattutto non le voglio conoscere dalle notizie che scrive“.
La direzione di Lepri ha fatto dell’Ansa un modello di equilibrio, e una scuola di buona scrittura. Raccoglieva le notizie che secondo lui erano scritte male in un librone rilegato, il terrore di tutti, fino a quando il comitato di redazione chiese, imbarazzato, di metterci la parola fine. Tra le soddisfazioni professionali, Lepri ricorda l’aver dato l’annuncio dell’elezione di Papa Paolo VI ben 21 secondi prima delle altre agenzie internazionali: alla prima sillaba del secondo nome, ‘baptistam’, l’Ansa aveva già inviato il flash. Le altre aspettarono di sentire la parola ‘Montini’: quando tutto il mondo è in attesa, 21 secondi sono un’eternità. Il momento più terribile, invece, fu il sequestro Moro. I comunicati delle Brigate Rosse arrivavano sulla sua scrivania, e lui doveva decidere se diffonderli o meno: “Nei trent’anni di direzione dell’agenzia, quella fu la decisione più sofferta“.
Sotto la sua direzione, l’organico dell’Ansa è passato da 81 a 400 giornalisti, tra cui moltissime donne. In un’intervista a L’Indro ha raccontato che quando è entrato all’Ansa c’era già una donna tra i redattori, Maria Teresa Di Maio, e negli anni Sessanta potevano già vantare l’11% di giornaliste. Anche alla buvette preferiva mandarci una donna: “La prima giornalista a insediarsi nella sala stampa di Montecitorio era dell’Ansa. Nei templi della politica mi fidavo più delle giornaliste. I maschi, nel giro di due o tre giorni tessevano alleanze e simpatie che rischiavano di favorire, sia pure freudianamente, gli amici. Le donne mai!”.
Il giornalismo, per Lepri, non è né letteratura né storiografia. Non è un esercizio di bello stile né tantomeno di persuasione, bensì una responsabilità civile: deve rendere conto solo ai cittadini, che hanno il diritto di informarsi, di sapere e di capire. Ha insegnato il mestiere a quasi due generazioni di praticanti: indirettamente, con i suoi manuali, e direttamente, nelle sue lezioni alla Scuola superiore di giornalismo Luiss, dov’è stato docente dalla fine degli anni ’80 ai primi 2000. Erano gli anni in cui la rivoluzione digitale bussava alle porte: il mondo cambiava confini e Internet trasformava radicalmente la professione. Ma Lepri è sempre stato consapevole che l’unico modo per fronte allo strapotere del web è quello di garantire ai lettori un’informazione accurata, completa e imparziale, l’unica via per riconquistare la fiducia del pubblico, messa in crisi ben prima del web.
Ai ragazzi che scelgono di fare questo mestiere “bellissimo, ma difficile” negli anni del precariato dilagante, ha sempre consigliato di non farsi tentare dalla vanità della firma, di non farsi sedurre dal potere: “Giornalisti non si nasce, come qualcuno pensa, giornalisti si diventa; con lo studio, con la lettura, col far tesoro delle giornaliere esperienze…Può essere un potere nella misura in cui sia un servizio, svolto con onestà e umiltà, a favore dei cittadini”. Il giornalismo come servizio civile, anche per i prossimi cento anni.