Alle 8.30 del mattino, il 25 settembre 1979, Cesare Terranova, magistrato palermitano, viene ucciso alla guida della sua Fiat 131, a pochi passi dalla sua abitazione, in un agguato di mafia dove trova la morte anche il maresciallo Lenin Mancuso, addetto alla sicurezza e suo storico collaboratore.
Nei primi commenti si parla di “ribalderia mafiosa” (i killer si muovono in pieno giorno senza preoccuparsi di essere riconosciuti) e di “Palermo città ingovernabile”. Il 1979 è l’anno di escalation dell’attacco mafioso allo Stato e l’inizio di quello strappo che porta Cosa nostra a colpire personaggi pubblici e alte figure delle istituzioni (l’assassinio del magistrato Pietro Scaglione, nel 1971, era rimasto un tragico ma isolato precedente).
Invece, in quel 1979, la delinquenza mafiosa mira a eliminare i personaggi eccellenti che pubblicamente la ostacolano. Nel capoluogo palermitano, a gennaio, è ucciso il cronista Mario Francese che aveva segnalato i rapporti tra mafia e affari individuando ascese e contrasti all’interno dell’universo mafioso.
A marzo è colpito Michele Reina, segretario provinciale della Democrazia cristiana, ostile alle connivenze tra politica e mafia.
A luglio è eliminato il capo della squadra mobile Boris Giuliano che stava indagando sugli affari di Michele Sindona (legato al più potente gruppo criminale dell’epoca), sul traffico di stupefacenti – in collaborazione con l’agenzia federale antidroga statunitense – e aveva individuato il nascondiglio del corleonese Leoluca Bagarella che, per un fatale destino, sarà il suo killer.
Cesare Terranova era stato deputato per due legislature, eletto come indipendente nelle liste del Partito comunista. In sede parlamentare si era distinto per il suo impegno nella Commissione antimafia denunciando l’esistenza di “santuari inviolabili” del potere mafioso che andavano debellati. Si trattava di comitati d’affari legati da un modus vivendi alla politica. Terranova conosceva la forza delle cosche e ne aveva assistito all’evoluzione, avendo condotto i processi sin dal 1958 e seguito l’indagine della prima guerra di mafia, fra le famiglie palermitane, nel 1962.
Tra gli uomini dello Stato ha aperto gli occhi a coloro che, per non innocenti motivi, fingevano di ignorare la vera natura della mafia, considerandola un fenomeno folcloristico dove, al più, “si ammazzano fra di loro”. Non fosse che la strage di Ciaculli del giugno 1963 – quando la mafia uccide quattro carabinieri e due uomini dell’esercito – ha schiarito la vista anche ai miopi.
È invalso, in una parte della tradizione politica e culturale italiana, distinguere una “mafia buona“, con un suo codice di “onore”, da una mafia cattiva e ciecamente sanguinaria. O nelle deformazioni meno gravi, ma scientificamente errate, la distinzione tra una mafia di campagna e una mafia di città.
Cesare Terranova, nelle sue sentenze, già a metà degli anni Sessanta aveva individuato le strutture di comando e forniva icastiche e precise descrizioni di questo fenomeno malavitoso, come si può riscontrare nel rinvio a giudizio di Luciano Leggio (vero nome del mafioso siciliano noto come “Liggio”) scritta nell’agosto del 1965: “La mafia non è un concetto astratto, non è uno stato d’animo, ma è criminalità organizzata efficiente e pericolosa, articolata in aggregati o gruppi o ‘famiglie’ o meglio ancora ‘cosche'”.
Poi, smontando lo stereotipo minimalista, Terranova aggiungeva: “Esiste una sola mafia, né vecchia, né giovane, né buona, né cattiva, esiste la mafia che è associazione delinquenziale“. In seguito alla strage di Ciaculli è l’istruttoria di Terranova che fornisce gli elementi per scardinare la vita tranquilla dei La Barbera, Buscetta, Greco, Leggio (queste ultimi tre interessati anche al tentato colpo di Stato di Junio Valerio Borghese nel dicembre 1970).
Terranova, tornato alla procura di Palermo dopo la parentesi parlamentare, sarebbe dovuto diventare il Capo dell’ufficio istruzione, una nomina che i mafiosi hanno voluto scongiurare, ma lo Stato è riuscito ugualmente a portare in quella carica un altro uomo, capace e inflessibile come Rocco Chinnici, che ha istituito il pool antimafia senza però sfuggire – anche lui – alla vendetta mafiosa trovando la morte il 29 luglio 1983.