Scuserete la romanticheria del titolo intrecciata a una licenziosa citazione dantesca, ma un po’ di leggerezza è pur sempre cosa lecita per stemperare il decollo spaziale di una star del cinema come Brad Pitt verso un film distopico e introspettivo dal genere per lui inedito: lo sci-fi di Ad Astra.
Il divo cresciuto a Springfield stavolta si cimenta con un futuro prossimo dove l’umanità investe sistematicamente nella colonizzazione interplanetaria. Alcune onde elettromagnetiche piuttosto anomale, provenienti da Nettuno, lasciano presagire un disastro imminente: così il tenente Roy McBride viene chiamato per risolvere la questione, viaggiando fino al penultimo pianeta più distante dal Sole.
In un percorso di scali, sulla Luna prima e su Marte poi, il regista James Gray ci conduce a una dimensione profondamente riflessiva dello spazio. Utilizza le distanze siderali scostandosi abbastanza sia da Stanley Kubrick che dai più recenti Christopher Nolan e Alfonso Cuarón, non troppo per le immagini riguardanti gli esterni in volo sospesi nel buio cosmico, quanto negli interni, dove la ricerca scenografica di Kevin Thompson ottiene ambientazioni che aprono a scrigno la loro sontuosità emotiva, partendo dall’essenzialità delle linee.
Sembra lo stesso lavoro che vuole compiere Gray, a questo punto più rivolto, nella forma del linguaggio filmico e non del genere, verso un racconto emotivo e visionario a là Terence Malick. Ovviamente non ne raggiunge l’astrattismo spirituale, ma riesce a coniugare Brad Pitt nei panni di un astronauta dal sangue freddo che nasconde, nei suoi 80 battiti al secondo in situazioni di pericolo, cicatrici emotive profonde quanto lo spazio attraversato.
Dall’altra parte del Sistema Solare, a inviare i pericolosi segnali per la Terra potrebbero essere le forze aliene delle quali suo padre, astronauta pioniere, partì alla spasmodica ricerca 30 anni prima, senza più fare ritorno.
Se l’ossessione calma del nostro tenente Pitt e dei suoi 80 battiti (pochissimi per qualsiasi essere umano a sangue freddo) contro quella febbrile di suo padre, interpretato da Tommy Lee Jones, creano il mistero da svelare alla fine del film, la narrazione procede fluttuando senza ritmi serrati, ma spesso morbidi.
In questo caso la forma risulta funzionale alla sostanzialità del viaggio spaziale. E poco importa se l’esagerazione dell’inseguimento sulla Luna con tanto di sparatoria cerca di strizzare l’occhio agli aficionados dell’action. Ci si sposta infatti da un pianeta all’altro in anni di isolamento: così l’epica solitaria di un Pitt monolitico e determinato trova il suo senso.
Questa spiritualità spaziale funzionerà sicuramente più di quella amazzonica ordita da James Gray nel suo precedente Civiltà Perduta; flop da 19 milioni di dollari incassati in tutto il mondo, a fronte di un budget di 30 milioni. In quel caso la trama confusa con le digressioni intimistiche intorno al protagonista non hanno premiato di certo.
Qui però la trama è molto più asciutta e l’intreccio incidentale sicuramente meno probabile. Tant’è che in America è uscito il 20 settembre e finora, sommando gli incassi nei paesi dov’è in programmazione, si registra la cifra totale di 46,5 milioni di dollari incassati su un budget di 50 milioni.
Tornando un momento al nostro titolo, “l’altre stelle” le fanno proprio il padre eroe, interpretato da Tommy Lee Jones, e un Donald Sutherland dolente nelle vesti dell’amico e collega. Sarà quest’ultimo a condurre Pitt negli spazi come un futuristico Virgilio. L’altra stella, quella che non t’aspetti perché negli ultimi anni un po’ cadente per la verità, la interpreta una Liv Tyler intensa al punto giusto che “riciccia” nei panni della moglie nostalgica di Pitt. Resisterà alla solitudine impostale dal marito esploratore di mondi?
Film compassato che delinea la star in maniera iconica – seppur statica rispetto a qualsiasi precedente di Pitt -, Ad Astra ambisce ad aggrappare l’attenzione dello spettatore in maniera ipnotica. Complici, oltre alle sospensioni spaziali di Gray, anche le musiche. Con selezioni che vanno dallo swing di Dean Martin ai violini di Jon Opstad, passando per le sonorità elettroniche di Nils Frahm, e ci si imbatte anche in una rimodulazione molto hollywoodiana della Sonata N. 14 di Beethoven ad opera degli Hidden Citizens.
Insomma, Ad Astra presta il fianco tanto a letture differenti quanto a valutazioni contrapposte, quindi affascinante pure nelle controversie che ha già scatenato tanto nella critica italiana quanto in quelle che scatenerà nel pubblico.