In attesa della sentenza della Consulta il dibattito sul fine vita diventa sempre più delicato. La Federazione nazionale dei medici: "Sia lo Stato ad assumersi la responsabilità dell’atto finale"
In attesa della sentenza della Consulta il dibattito sul fine vita diventa sempre più delicato. Se da una parte ci sono i 4mila medici cattolici pronti a fare obiezione di coscienza nel caso in cui il Parlamento legiferasse a favore del suicidio assistito, dall’altra ci sono 237 medici che hanno firmato un appello per le ragioni opposte. In prima linea a favore di una “pro-scelta” e contro l’imposizione di coscienza c’è Mario Riccio, che fu il medico di Piergiorgio Welby e dirigente dell’associazione Luca Coscioni. Riccio fu prosciolto dal gup di Roma dall’accusa di ‘omicidio del consenziente’, per aver interrotto la ventilazione meccanica aiutando Welby a morire. Per il magistrato l’uomo, malato di distrofia, aveva il diritto di chiedere l’interruzione della ventilazione meccanica e che il medico aveva il dovere di assecondare la sua richiesta. “In riferimento alla richiesta di alcune associazioni mediche – dice Riccio – che si dicono pronte all’obiezione di coscienza è giusto chiarire che nessuno, né tanto meno un medico favorevole alla morte medicalmente assistita come me vuole imporre l’obbligo professionale di praticarla“. E poi precisa: “Vogliamo solo garantire al paziente quello che in tanti medici riteniamo essere un suo diritto“. “Vogliamo solo garantire al paziente – afferma Riccio – quello che in tanti medici riteniamo essere un suo diritto e che speriamo che oggi la Corte Costituzionale voglia definitivamente sancire. Insieme a tanti altri medici che condividono medesime convinzioni e obiettivi – conclude – saremo presenti al Congresso Nazionale di Associazione Luca Coscioni in programma dal 3 al 6 ottobre presso l’Università degli studi di Bari“.
La Federazione nazionale dei medici chirurghi e odontoiatri (Fnomceo) auspica che “la responsabilità non ricada sui medici. Se oggi la Consulta dovesse deliberare la depenalizzazione dell’aiuto al suicidio, siamo certi che lo Stato tutelerà, allo stesso modo dell’autodeterminazione del paziente, l’obiezione di coscienza di quei medici che non si sentiranno di rovesciare le loro convinzioni”, dice il presidente di Fnomceo Filippo Anelli, “noi chiediamo allo Stato di fare un ulteriore passo, e di assumersi la responsabilità dell’atto finale. Chiediamo che sia un rappresentante dello Stato a prendere atto della sussistenza di tutte le condizioni, certificate ovviamente dai medici, e a procurare al paziente il farmaco che dovrà assumere”. “Nel merito, non possiamo che ribadire la nostra posizione – spiega Anelli – è chiaro, ed esposto dall’articolo 3 del Codice di Deontologia Medica, il principio fondamentale su cui regge la nostra professione: “Dovere del medico è la tutela della vita, della salute fisica e psichica dell’uomo e il sollievo dalla sofferenza nel rispetto della libertà e della dignità della persona umana”. “Questa affermazione porta con sé almeno due corollari – sottolinea – il primo è che i medici vedono nella morte un nemico e nella malattia un’anomalia da sanare: mai si è pensato che la morte potesse diventare un alleato, che potesse risolvere le sofferenze della persona. Se oggi la Consulta decidesse per una depenalizzazione dell’aiuto al suicidio, verrebbe capovolto questo paradigma”. E aggiunge: “Le ripercussioni non riguarderebbero solo i medici e le altre professioni sanitarie: il meccanismo che porta ad accompagnare una persona verso il suicidio coinvolge l’intera società“.
Un’ipotesi quella dell’introduzione normativa del suicidio medicalmente assistito prospettata già nell’ordinanza con cui l’anno scorso la Consulta invitava il Parlamento a intervenire: coordinate precise come la irreversibilità della patologia, la sofferenza, la capacità di intendere e di volere e la necessità di un presidio per il sostegno vitale. Condizioni in cui, per esempio, si trovava Fabiano Antoniani. Sul punto la Consulta, ancora nell’ordinanza dell’anno scorso, aveva però individuato una violazione del principio di uguaglianza. La legge 219 – quella successiva all’intervento della Cassazione dopo il caso Englaro – consente anche il rifiuto dei trattamenti di sostegno vitale e prevede in tal caso la possibilità, per il malato, di accedere alla sedazione palliativa profonda. La norma non prevede però a chi si trovi nelle condizioni di DjFabo una scelta ulteriore, che escluda la sedazione palliativa profonda in favore di un percorso volto ad accelerare la morte. Ed è per questo che, come ha spiegato la giurista Carmen Salazar al fattoquotidiano.it, secondo i giudici hanno individuato una “disparità di trattamento e la conseguente violazione del principio di uguaglianza”.
Intanto oggi è stato presentato il ddl sul fine vita. Il disegno di legge prevede di consentire a chi sta morendo di farlo in modo corrispondente alla propria visione di dignità. Priima firmataria Monica Cirinnà, insieme a Tommaso Cerno (Pd), Loredana De Petris (Leu), Matteo Mantero (M5S), Riccardo Nencini (Psi), Paola Nugnes (Leu) e Roberto Rampi (Pd). La legislazione vigente consente già al malato o alla sua famiglia di decidere tra la rinuncia ai trattamenti sanitari e la sedazione profonda: “In sedazione profonda sottoponi te stesso e la tua famiglia a una attesa che potrebbe privarti della dignità”, osserva però la senatrice del Pd, che precisa come già la Consulta abbia osservato che l’attesa in sedazione profonda non sempre può essere considerata dignitosa. Il ddl Cirinnà prevede che il paziente possa scegliere di non avere più quel tempo di attesa, consentendo la somministrazione di un farmaco che possa provocare la morte rapidamente e senza dolore in casi precisi individuati dalla Corte costituzionale, includendo nella disciplina dell’aiuto medico a morire anche quei pazienti che, sebbene non tenuti in vita con trattamenti di sostegno, siano affetti da patologie gravi e irreversibili, fonte di sofferenze fisiche o psichiche intollerabili.