La ricerca è basata su un campione di 45mila individui tra i 18 e 74 anni. Solo il 19,2% ha un contratto di collaborazione. Per la metà il guadagno ricavato con il "lavoretto" è essenziale. La direttrice generale dell'istituto: "Necessario intervenire per potenziare la protezione sociale ed assicurare livelli di reddito adeguati"
Oltre 210mila lavoratori, il 42% dei quali senza contratto. Mentre solo il 2,9% ha il “privilegio” di un contratto cococo. Sono i risultati di un censimento dell’Inapp (ex Isfol) sui gig worker italiani, cioè coloro che fanno un “lavoretto” intermediato da una piattaforma. Non solo rider che portano i pasti a domicilio ma anche autisti Uber, free lance nel campo dell’informatica, baby sitter e colf a giornata, artigiani che vendono servizi tramite una app. L’indagine, presentata in audizione alla commissione Lavoro della Camera dalla direttrice generale Inapp Paola Nicastro, si basa su un campione di 45mila individui residenti in Italia fra i 18 e 74 anni e rappresenta la prima mappatura della gig economy in Italia.
“Il lavoro sulle piattaforme si è notevolmente diffuso anche nel nostro Paese. I gig workers italiani, in base ad una nostra indagine, sono 213.150“, ha detto Nicastro. “Il problema è che il 42% di questi lavorano senza un vero e proprio contratto e il 19,2% con un contratto di collaborazione occasionale“. Mentre solo il 2,9% ha un cococo e dunque, per esempio, la copertura assicurativa Inail. A differenza di quanto si tende ad immaginare, “la composizione per titoli di studio è variegata infatti il 47% di loro ha un livello di scuola secondaria superiore e il 16% ha un livello d’istruzione terziaria. Dei lavoratori della gig economy il 39% di chi svolge questo lavoro ha già un’occupazione mentre dal punto di vista dell’importanza del reddito circa la metà lo considera essenziale per soddisfare le proprie esigenze”.
Insomma non si tratta solo di un’economia di lavoretti come spesso viene classificata. Né è identificabile solo con la categoria dei rider: riguarda una molteplicità di lavoratori che attualmente non godono di standard uniformi, della giusta protezione sociale né di un’adeguata retribuzione. “Anche se il decreto legge 101/2019 ha fissato alcune regole sul lavoro on demand con l’intento proprio di tutelare e assicurare protezione economica e normativa ai lavoratori impiegati nelle attività di consegna di beni per conto altrui”, ha proseguito Nicastro. “Bisogna poi riflettere su quanto è accaduto in California“, “dove questo tipo di economia è nata, lì il Senato ha appena approvato una legge secondo cui i lavoratori delle aziende della gig economy non devono essere considerati lavoratori indipendenti ma dei dipendenti a tutti gli effetti con diritto al salario minimo, al congedo parentale e all’assicurazione contro la disoccupazione“.