Ognuno per sé. Ognuno a registrare le proprie parti da solo, per poi sovrainciderle. Incontri, pochi. Solo per le basi ritmiche. John Lennon ha appena iniziato una vita diversa, che lo porta verso pensieri lontani, Paul McCartney cerca di tenere in piedi la band ma fa molta fatica. Si può diventare grandi come i Beatles senza arrivare a un punto di rottura? Si può stare a cavalcioni sul tetto del mondo senza farsi prendere dalla voglia di rimandare a valle i compagni, per godersi lo spettacolo da soli?
È il 1969 quando i quattro di Liverpool mettono insieme il materiale che darà vita ad Abbey Road. Cinquant’anni pieni, rotondi. Le condizioni non sono delle migliori, il gruppo sta per sciogliersi, niente è più come prima. Ma l’album che esce non risente di questo clima, niente affatto. John e Paul si ostinano a firmare insieme, e così è per la canzone che apre l’album, Come Together. Un pezzo di John, nel senso più stretto dell’espressione: lo senti appena attacca che è roba sua. Ispirazione chiara You can’t catch me di Chuck Berry. È impressionante sentire John che sussurra “shoot me“, “sparami“. La seconda canzone dell’album è Something. Una delle più belle canzoni dei Beatles e una delle più belle canzoni d’amore mai scritte, firmata George Harrison. Frank Sinatra ne era innamorato, tanto che la cantò spesso dal vivo. “Una grande canzone, fui sorpreso dal fatto che George fosse stato capace di scriverla”, avrebbe detto George Martin (Il Libro Bianco dei Beatles, Franco Zanetti), ancora alla produzione nonostante la maretta tra i quattro si stesse trasformando in tempesta.
È il disco che contiene anche una delle migliori espressioni di Ringo. Il “sosfisticato” Starr, che agli inizi guidava una Ford Zephyr Zodia, “si era fatto crescere la barba, possedeva un abito completo,e aveva classe” scrisse il brano Octopus’s Garden dopo aver discusso con i tre compagni di band. Per dimenticare quella che aveva definito una “gabbia di matti” se n’era andato in Sardegna, ospite nella barca di Peter Sellers e lì il capitano gli aveva raccontato di una fantomatica vita dei polpi in fondo al mare, fatta di giardini e oggetti luccicanti. I’d ask my friends to come and see, an octopus’s garden with me, canta Ringo come “segno di pace” verso gli altri che lo aspettavano a Londra. Pace e guerra.
Abbey Road è anche l’album di I Want you (She’s so heavy), canzone d’amore per Yoko Ono. Cupa, un blues a tinte nere: potrebbe essere stata scritta ieri, o forse stamattina. Ma questo vale per tutto l’album. Here comes the sun, You Never Give me Your Money (nella quale McCartney si riferisce in modo secco e senza troppe metafore alla situazione economica della Apple). Non c’è bisogno di elencare l’intera tracklist, che chiude con The End. Un tappeto di archi. Una frase che dice “addio” come fosse un libro sulla band più famosa del mondo: “E alla fine l’amore che prendi è uguale all’amore che dai“.
Un’opera che per alcuni è la migliore dei Beatles. Uscita cinquat’anni fa, oggi. Con quella copertina lì, ragazzi. Nata da uno schizzo di McCartney. La foto fu scattata intorno alle 11.35 dell’8 agosto 1969 dal fotografo scozzese Iain Macmillan. Orario non casuale, ma scelto appositamente per evitare i fan, che sapevano che la band si presentava in genere negli studi a metà pomeriggio. Macmillan stava in piedi su una scala in mezzo alla strada, mentre un poliziotto fermava il traffico. Sei scatti in tutto, fra i quali fu scelto il quinto: l’unico in cui tutti i componenti della band facevano un passo all’unisono. Il servizio fotografico durò in tutto dieci minuti. L’album fu ultimato dodici giorni dopo, il 20 agosto, e fu rilasciato il 26 settembre. Solo sei giorni prima, John Lennon aveva annunciato in privato ai suoi compagni che avrebbe lasciato la band. Una delle copertine più iconiche di sempre. Per uno degli album più importanti della storia della musica. Ora cui vorrebbero un paio di auricolari per ascoltare Here Comes The Sun. Magari immaginando di essere dove Harrison l’ha composta: “Era una bella mattina di sole ed eravamo seduti ai bordi di un enorme prato, in fondo al giardino. Avevamo le chitarre e stavamo strimpellando quando lui cominciò a cantare “la la la la it’s been a long cold lonely winter”. All’ora di pranzo aveva finito la canzone” (Eric Clapton).