Non venitemi a parlare dell’importanza dell’ecologia. Mio padre Giancarlo nel 1973 fondava – primo in Italia – l’Ine, Istituto nazionale di ecologia e ricordo perfettamente un nostro viaggio insieme all’Isola di Wight nel 1973 alla scoperta di una delle prime auto elettriche, la Enfield 8000, motore da 6 kw e velocità massima di 65 km orari.
Ricordo l’esperienza veramente “elettrizzante” di salire su quella scatoletta gialla simile alle odierne Sharengo cinesi, ma in anticipo di 40 anni sul futuro. Quella prima macchinetta elettrica dal costo astronomico per l’epoca (costava quanto una 3mila di cilindrata), come venni poi a sapere, era stata progettata e pagata grazie ai danari dei petrolieri!
Le potenze finanziarie arabe stavano vivendo, insieme a tutto l’Occidente, la famosa crisi del greggio e stavano già pensando al piano B che avrebbe continuato a renderli padroni della mobilità e quindi del pianeta. Inutile dirvi che la futuribile Enfield 8000 e l’Ine di mio padre ebbero vita breve. In effetti anche quella di mio padre stesso non fu poi così lunga. Sopravvisse a quella lungimirante avventura, che non trovò investitori italiani, appena una quindicina d’anni, senza neanche la soddisfazione di vedere una mobilitazione planetaria in favore dell’ecologia.
Oggi c’è una incredibile, inaspettata nuova consapevolezza che sembra avvolgere un mondo in declino. Un declino che nasce dalla voracità del capitalismo liberista nell’ingollare le ricchezze altrui (in questo caso della natura). Una consapevolezza che sembra nascere sui banchi di scuola in bimbi che non hanno mai imparato cosa fosse il comunismo e ai quali forse non è mai stato neanche spiegato bene cosa sia l’ecologia.
Fatto sta che una lunga coda di “gretini” si è messa in fila dietro a una giovane svedese, secondo me magistralmente manovrata dal marketing, per chiedere “futuro”. Come lo chiedono? Tramite ben congegnati meccanismi di consenso collettivo che individuano acriticamente soluzioni non sempre davvero ecologiste. Prendiamo il caso delle meravigliose automobili elettriche. Di mobilità elettrica si riempiono la bocca tutti oggi, laddove la povera Enfield 8000 poteva ai tempi davvero rendere il mondo diverso da oggi. Ma, come in un giallo di quart’ordine, la parola d’ordine dovrebbe essere sempre “cui prodest scelus?“, come diceva Seneca.
In questi giorni è nelle sale un documentario intitolato Antropocene. La tesi è la solita: l’uomo ha preso il sopravvento sulla natura e i cambiamenti – anche climatici – indotti da questi sono di gran lunga superiori e deleteri di qualunque fenomeno naturale degli ultimi miliardi di anni. Ma nel documentario c’è anche una piccola parte che racconta, quasi en passant, una verità scomoda. Non riguarda i milioni di ettari di foresta vergine divorate dalla avidità delle multinazionali della coltivazione (magari bio) o di quelle degli allevatori (sempre bio), ma riguarda un deserto, quello di Atacama, in Cile.
Eh sì, perché proprio in questo meraviglioso, irripetibile deserto di sale più grande del mondo si trova il 27% delle riserve mondiali di litio, l’elemento essenziale della “Rivoluzione verde”, quello che dovrebbe farci guidare in città prive di smog, grazie alle auto elettriche. Con il litio infatti si fanno le batterie per le auto, ma anche quelle dei computer, dei telefoni cellulari, di tutto quello che i giovanotti chiamano “green” mentre magari marinano la scuola. È stato calcolato che la domanda di litio potrebbe quadruplicare entro il 2025. A gestire la ricchezza inattesa del Cile c’è la Sociedad quimica y minera, una azienda un tempo pubblica, che venne privatizzata dalla feroce dittatura di Augusto Pinochet.
E, pensate un po’, dei familiari del dittatore possiedono ancora oggi una parte rilevante delle sue azioni. Ma non vi preoccupate, amici ecologisti, la Sqm promette di triplicare la produzione di litio per le vostre batterie “verdi” entro il 2030, alla faccia dei gonzi che ignorano il postulato di Lavoisier: “nulla si crea e nulla si distrugge, tutto si trasforma”.
Le batterie al litio non sono ecologiche: la loro impronta ambientale, cioè il disastro che produrranno tra qualche decina d’anni, viene semplicemente ignorata dai “gretini” di tutto il mondo. Meno male che è risorto “nonno” Bill Gates portandoci un po’ di sana verità. Pensando di fare una bella dichiarazione rassicurante e verde, ci ha garantito in questi giorni che investire 1,8 miliardi di miliardi di dollari in (presunta) salvaguardia dell’ambiente dal 2020 al 2030 renderà “benefici” per 7,1 miliardi di miliardi.
Ecco, il nuovo ambientalismo è tutto qui. Un liberismo al trilione. L’ambiente è la prossima “big thing” del capitalismo e i ragazzini scappano da scuola per correre felici a portare l’acqua con le orecchie al loro nuovo, vecchio pifferaio di Hamelin. Forse a questa Terra conviene davvero la nostra estinzione.