“Il principio introdotto dalla Corte rappresenta una rivoluzione copernicana”, ma “restano molti punti critici e il rischio è che alla fine nasca una legge fotocopia delle Dat, cioè un nulla in più di quanto già abbiamo”. Mario Riccio, il medico anestesista che 3 anni fa aiutò a Piergiorgio Welby a morire affida all’Ansa la sua riflessione sulla decisione della Consulta che ieri, indicando un indispensabile intervento delle Camere, ha stabilito che non è punibile l’aiuto al suicidio nei casi, come quelli di Dj Fabo, in cui la persona, che chiede di morire, è capace di intendere e volere, ha una patologia irreversibile che è fonte di sofferenze fisiche o psicologiche, ed è tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale. Le disposizioni anticipate di trattamento – arrivate con l’approvazione della legge 219 del 2017 – permettono di “esprimere le proprie convinzioni e preferenze in materia di trattamenti sanitari, nonché il consenso o il rifiuto rispetto a scelte diagnostiche o terapeutiche e a singoli trattamenti sanitari, comprese le pratiche di nutrizione e idratazione artificiali”.
È stato affermato, spiega, “un cambiamento paradigmatico: non è punibile aiutare attivamente un paziente a suicidarsi, in determinate circostanze”. Ma “al momento, in termini concreti, non credo sia cambiato molto. La soluzione, prosegue Riccio, per chi volesse accedere al suicidio assistito, sembra essere ancora la lontana e costosa Svizzera“.
Due i punti che lasciano dubbi, precisa. “Nel momento in cui la Corte stabilisce che il paziente per avervi diritto debba esser tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale, quali potrebbero essere ventilatore o nutrizione artificiale, si introduce un ostacolo alle possibilità di accesso: si limita la possibilità alla rinuncia delle sole terapie salvavita in sedazione. Ma questo era già contenuto nella legge sulle Dichiarazione anticipate di trattamento (Dat)”. Inoltre, prosegue, “la Corte fa riferimento alla necessità di sentire il parere del comitato etico territorialmente competente. Questi enti però non sono definiti con precisione nel nostro Paese. Speriamo si chiarisca che non debba essere vincolante”. Con queste premesse, conclude Riccio, “credo sia molto complicato che il Parlamento riesca realmente a fare una legge che permetta un accesso certo al suicidio assistito“.
Riflessioni che arrivano a caldo. Per le motivazioni della sentenza, su cui si è registrata l’unanimità dei giudici costituzionali, bisognerà attendere un mese. Relatore è il giudice Franco Modugno, estensore di altre sentenze delicate, come quella sulla legge Merlin. Una volta deposito il verdetto la Corte d’assise di Milano fisserà l’udienza per riprendere il processo a Marco Cappato. Fu sollevata dal collegio, presieduto da Ilio Mannucci Pacini, il 14 febbraio 2018, sollevò la questione di illegittimità costituzionale di parte del reato di istigazione e aiuto al suicidio, facendo leva sulla “libertà di decidere come e quando morire”.
Gli stessi pm, il procuratore aggiunto Tiziana Siciliano e il pm Sara Arduini, avevano chiesto l’assoluzione per Cappato o di eccepire l’incostituzionalità della norma. Con la sentenza arrivata ieri Cappato sarà certamente assolto. I giudici della Corte milanese, tra l’altro, nell’ordinanza di 16 pagine del febbraio 2018 avevano, in sostanza, già pronunciato un’assoluzione ‘di fatto’ sostenendo che non rafforzò “l’intento suicidiario” di Dj Fabo e lo aiutò solo materialmente a compiere ciò che aveva deciso “in autonomia”. Assoluzione che, però, avevano spiegato i giudici, non poteva essere pronunciata a causa di una norma di “epoca fascista”, ossia “la sanzione indiscriminata di tutte le condotte di aiuto al suicidio” prevista dall’articolo 580 del codice penale, che contrasta con la Costituzione.
Tra l’altro, la Corte milanese nell’ordinanza aveva persino superato la tesi dei pm, che avevano chiesto prima l’archiviazione e poi l’assoluzione per Cappato riferendosi al diritto a morire “con dignità” in “situazioni oggettivamente valutabili di malattia terminale o gravida di sofferenze o ritenuta intollerabile o indegna dal malato stesso”. Per i giudici milanesi, infatti, la “libertà” dell’individuo “di decidere quando e come morire”, riconosciuta anche dalla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, vale a prescindere dalle condizioni di salute e, quindi, non è legata necessariamente a uno stato di malattia irreversibile o meno.