Lo scrittore americano sa che, per avviare un cambiamento - incluso quello ambientale - è necessario sentirsi emotivamente coinvolte. L'informazione in sé, quindi, non basta. Quello che ci vuole, spiega l'autore nel suo ultimo libro ‘Possiamo salvare il mondo prima di cena’, è lo storytelling. Perché l’importante non è cosa si racconta, ma come
Diciamo la verità: del cambiamento climatico non ci importa nulla. Non neghiamo che sia vero: abbiamo letto articoli, ci siamo informati, magari ci siamo anche convertiti all’uso della borraccia o dell’auto elettrica. Conosciamo i fatti, ma percepiamo la crisi ambientale come una minaccia vaga e lontana, non siamo visceralmente convinti che stia accadendo davvero, qui e ora, a tutti noi. E se è così difficile crederci – e agire di conseguenza – è perché “è atrocemente, tragicamente difficile parlare della crisi del pianeta in modo da renderla credibile”. Non lo dicono i negazionisti più accaniti ma lo scrittore statunitense Joathan Safran Foer, ambientalista convinto, nel suo ultimo libro: Possiamo salvare il mondo prima di cena, perché il clima siamo noi (Guanda, 312 pgg, 18 euro).
Una storia senza eroi e senza trama. Safran Foer sa che per imbracciare le armi le persone hanno bisogno di sentirsi emotivamente coinvolte. E sa che nessun bambino alla recita scolastica farà commuovere i genitori raccontando la storia dei cambiamenti climatici, perché non è affatto una buona storia. Anzi, per dirla con le parole del biologo Randy Olson “è probabilmente l’argomento più noioso che il mondo scientifico si sia mai trovato a presentare al pubblico”. Tutte i racconti che formano la cultura occidentale, dai racconti biblici ai romanzi cavallereschi, si basano su uno schema narrativo chiaro: “Uno scontro epocale tra i cattivi e gli eroi, distinti con chiarezza, e un finale edificante”. Le storie hanno bisogno di volti; non a caso il tema dell’ambiente è divampato quando è comparsa sulla scena una ragazzina svedese con le trecce. Ma in questa storia non ci sono protagonisti e non c’è nemmeno un nemico contro cui fare fronte comune. Oppure ce ne sono troppi, e nebulosi: le compagnie petrolifere, le multinazionali, gli allevamenti intensivi. Non c’è un luogo, un momento, un evento simbolo: ci sono diversi fenomeni dislocati nel tempo e nello spazio – uragani, inondazioni, ondate di siccità – che per quanto traumatici, difficilmente vengono percepiti come eventi storici, come l’11 settembre. Il guaio è che in questa storia noi siamo i cattivi, le vittime e i potenziali eroi allo stesso tempo. Anche l’arte e la letteratura sono in difficoltà: “Si rappresentano i cambiamenti climatici come un dramma apocalittico ambientato nel futuro e non come un processo variabile e progressivo”, sostiene l’autore.
L’impegno? Una questione di storytelling. Da brillante narratore quale è, Safran Foer capisce che l’importante non è cosa racconti, ma come. Per questo, quando pensiamo a una donna di colore che si rifiutò di cedere il proprio posto in autobus a un bianco non pensiamo a Claudette Colvin, quindicenne incinta, ma a Rosa Parks, rispettabile militante per i diritti civili, che avrebbe fatto lo stesso gesto solo nove mesi dopo l’arresto di Claudette. Rosa Parks ha creato una narrazione: così la cronaca è entrata nella storia e poi nel mito. “Il cristianesimo si sarebbe diffuso se, invece che inchiodato alla croce, Gesù fosse stato annegato in una vasca da bagno? – riflette Foer – Il diario di Anne Frank avrebbe avuto così tanti lettori se l’avesse scritto un uomo di mezza età invece di una ragazza di inquietante bellezza?”. Cosa c’entra però lo storytelling con l’ambiente? C’entra. Perché le informazioni sono fondamentali per agire, ma da sole non bastano. “Per mobilitare le persone serve una questione emotiva” scrive Foer citando il premio Nobel Kahneman. “Credere dovrebbe far sorgere in noi l’urgente imperativo etico che ne consegue, smuovere la nostra coscienza e renderci pronti a compiere piccoli sacrifici nel presente per evitare sacrifici epocali in futuro”. Durante la seconda guerra mondiale alla popolazione americana furono chiesti sacrifici: imposte aumentate, cibo razionato, la benzina regolamentata. “Quando viaggi da solo – urlavano i poster del governo – viaggi con Hitler”. “La seconda guerra mondiale non sarebbe stata vinta senza l’attivazione del fronte interno: la gente normale unì gli sforzi per sostenere la causa generale”. Il nemico era chiaro, la posta in gioco pure. Cosa siamo disposti a sacrificare oggi, pur di salvarci? La cannuccia nel drink, un hamburger, la macchina?
Noi siamo il Diluvio, noi siamo l’Arca. Solo una minoranza delle persone nega i cambiamenti climatici: sappiamo tutti che dobbiamo fare qualcosa, ma scegliamo di non fare nulla, o di non fare abbastanza. “Il fatto di sapere fa la differenza tra un errore madornale e un crimine imperdonabile”. Anziché invertire la rotta preferiamo chiudere gli occhi come lo scrittore da bambino, sperando che l’ape che ci spaventa sparisca. Perché? Perché la comodità di oggi è preferibile alla salvezza di un domani lontano. Perché il nostro cervello è programmato per rispondere ad alcune minacce e ignorarne altre. Perché conosciamo i fatti, ma non riusciamo a sentirci toccati nel profondo. Perché “sembra impossibile parlare della crisi ambientale in un modo che sia al tempo stesso veritiero e affascinante”, conclude l’autore, che però continua ad avere fiducia: noi abbiamo creato la crisi, e noi possiamo risolverla. Noi siamo il diluvio, e noi siamo l’Arca. Solo che non abbiamo cent’anni a disposizione come Noé, né tanto meno un comando divino. Dobbiamo trovare in noi le motivazioni necessarie ad agire: è una guerra senza eroi e senza nemici, ma è pur sempre una guerra.