Oggi sarò in piazza con i Fridays for Future. Ci sarò come semplice cittadina preoccupata per la sopravvivenza della specie umana (non del pianeta); ci sarò perché faccio parte dei Parents For Future, i genitori di tutto il mondo angosciati per la sorte dei propri figli. Ci sarò, infine, come giornalista che ha capito, con colpevole ritardo, che raccontare il cambiamento climatico è la cosa più urgente che ci sia, ma anche, al tempo stesso, una sfida ostica e per niente facile.
Come ha detto benissimo lo scrittore Jonathan Safran Foer nel suo ultimo libro, quella del cambiamento climatico non è una narrativa accattivante. Per alcuni aspetti è noiosa, per altri terrificante; soprattutto ci restituisce emozioni di angoscia e impotenza che sono tra le più difficili da gestire per un essere umano.
E per questo motivo, anche, i primi ad aver fallito, finora, al compito di spiegare come il clima sta cambiando per sempre le nostre esistenze sono soprattutto i giornalisti, come ha raccontato di recente un lungo reportage de Internazionale sui sette errori capitali del giornalismo rispetto al tema clima.
Per un mix di ignoranza scientifica, eccesso di vecchia cultura umanistica e paura di un fenomeno sempre snobbato, il cambiamento climatico è stato letteralmente dimenticato dai giornali, relegato negli inserti di scienza o nelle ultime pagine. Poi, piano piano, mentre la gravità della situazione cresceva e grazie anche a Greta Thunberg e ai Fridays For Future, la questione ha scalato le pagine fino arrivare alle prime.
Ma senza, ancora, avere la dignità di una vera apertura. Restano indietro le radio, resta indietro ancora la tv. Lentamente anche qui si comincia a parlarne, ma sempre poco. Sempre come tema secondario. Di fatto, l’informazione italiana, tra cui tutti i tg – anche quelli di “sinistra” -, in questi anni non ha svolto il suo compito. Semplicemente, non ha informato. Non ha dato le notizie, che pure c’erano ed erano enormi.
Ma allora come comunicare il riscaldamento globale? Quello che ho imparato in questi mesi è che, se si assumono toni troppo apocalittici, le persone tendono a non leggere, a girare la testa dall’altra parte perché non sostengono l’eccesso di tragicità. Lo stesso avviene sui social network, dove troppo dramma fa sì che chi in qualche modo capisce il problema taccia e si ritiri, lasciando campo libero invece ad attacchi ed insulti di gente che da un lato è priva di qualsiasi cultura scientifica, dall’altro, semplicemente, col suo attacco dimostra la sua profonda paura. Eppure, ovviamente, il problema non può essere negato, oppure trattato in maniera fredda e asettica, perché di asettico non ha nulla, avendo a che fare con la possibilità o meno della nostra stessa sopravvivenza.
Come per tutti gli argomenti, anche il racconto del clima funziona meglio quando si danno notizie che aprono alla speranza – ad esempio facendo vedere quante persone, aziende, leader si stiano attivando per fare qualcosa – oppure, anche, quando si danno indicazioni concrete su cosa fare per cambiare le cose, con esempi e consigli molto pratici su risparmio dell’acqua, riciclo, trasporto sostenibile e così via.
Ma a differenza di altri argomenti, il cambiamento climatico resta un tema su cui, a volte, è necessario dare informazioni tragiche su fatti ed eventi a cui, tra l’altro, in molti casi è tardi per porre rimedio. Così è necessario ricordare, rischiando però di aumentare lo scetticismo, che la messa in atto di comportamenti individuali sostenibili è cruciale, ma non serve senza l’adozione di misure politiche internazionali e cambiamenti a livelli più alti.
L’unica strada per un racconto giornalistico che funzioni, allora, è alternare notizie di registro diverso, cercando di creare un mix credibile e realistico, né apocalittico né negazionista. Dobbiamo alternare paura e speranza, riflessione spesso malinconica su ciò che sta accadendo, con relativi e corretti sentimenti di tristezza, e incitamento ad agire e a non lasciarsi scoraggiare.
Emotivamente non è per nulla facile, neanche per noi, avere a che fare con dati che raccontano di un futuro drasticamente diverso, e in negativo, da come ce lo siamo immaginato, specie avendo dei figli piccoli. La tentazione sarebbe quella di dire “mi occupo di altro, basta, non posso sopportare questo livello di drammaticità”.
Eppure, chi fa il giornalista ha il dovere di dare le notizie e quelle climatiche ormai hanno una rilevanza assoluta. Sta a noi cercare un equilibrio interno tra spazi di piacere o di lavoro su temi più lievi e l’importanza di esserci su questo tema. Sta a noi capire che, se perdiamo la speranza o ci scoraggiamo – e non è facile -, non saremo buoni giornalisti.
Più equilibrio riusciremo a trovare nelle nostre vite private e lavorative, maggiore sarà l’obiettività e insieme la leggibilità degli articoli che faremo. E maggiore la nostra capacità di non far fuggire chi legge, né di ridurlo all’impotenza, ma informarlo incoraggiandolo ad agire. Questa, a mio avviso, è la sfida più grande del giornalismo di oggi.