In questi giorni, osservando il dibattito sui giornali o alla radio intorno alla mobilitazione di oggi (meno nei talk show, tutti concentrati sulle vicende di questo o quel Matteo) sulla crisi climatica, c’è un aspetto che balza agli occhi se confrontato con la discussione in molti altri paesi europei.

In Italia si perde ancora tempo con chi contesta l’esistenza stessa di una causa antropica del clima impazzito e che utilizza questo argomento per delegittimare non solo la persona e l’azione di Greta Thunberg, ma anche la necessità di cambiare il nostro modo di vivere, muoverci e consumare, partendo dal presupposto che alla fine sia possibile e preferibile lo status quo fossile, inquinato e insostenibile nel quale ci troviamo. Eppure, tre studi recenti pubblicati su Nature and Nature Geoscience utilizzano ampi dati storici per dimostrare che non c’è mai stato un periodo negli ultimi 2.000 anni in cui i cambiamenti di temperatura sono stati così rapidi ed estesi come negli ultimi decenni: il consenso scientifico sul fatto che gli esseri umani stanno causando il riscaldamento globale ha superato il 99%, secondo gli autori principali degli studi e potrebbe aumentare ulteriormente dopo altre ricerche separate che chiariscono alcuni dei dubbi rimanenti.

Il vantaggio più importante del “fronte fossile” e degli interessi miliardari che gli stanno intorno, sta nel fatto che media, politica, operatori culturali e quindi anche molte persone, pur rendendosi conto che c’è qualcosa che non va nella siccità e nel caldo torrido più frequente, nelle inondazioni e nella prospettiva che addirittura caschi su Courmayeur una cascata d’acqua, non riescono a vedere che investire per ridurre le emissioni che cambiano il clima, per attrezzare le nostre case, le nostre città a resistere meglio ai suoi effetti già visibili, per smettere di dipendere dagli umori di Putin e di sceicchi lontani o multinazionali fossili e respirare meglio non è una prospettiva punitiva da ritorno alle caverne o buona per radical chic benestanti. Ma è la nuova frontiera del “progresso”, della salute, del lavoro di qualità, dell’innovazione, di città belle e pulite, di un cibo buono e sano, di una società aperta di cittadini e cittadine consapevoli della loro responsabilità verso sé stessi e gli altri, in una parola di una vita migliore, soprattutto per chi non ha i mezzi di spostarsi altrove se gli arriva qualche guaio climatico in testa. Insomma, pur se ancora potenti e influenti, i “fossili”, se ne facciano una ragione: la retroguardia sono loro.

È chiaro però che per arrivarci bisognerà litigare, convincere e fare scelte difficili, accompagnare con misure appropriate e costose di integrazione, formazione, sostegno chi dipende da settori produttivi e fonti energetiche che devono essere superati. Non sarà facile, soprattutto perché dal 1992 anno del “Vertice della terra” a Rio abbiamo più o meno tergiversato e adesso la finestra per invertire la marcia si accorcia.

Lo si vede bene nelle contraddizioni del governo Conte Due, che dichiara mano sul cuore che la priorità è il Green New Deal e poi al Consiglio a Bruxelles il suo neo ministro Patuanelli dice che l’Italia non cambierà nulla in materia di rinnovabili, efficienza energetica e riduzione delle emissioni rispetto al precedente governo a trazione climato-scettica e leghista; il candidato Pd dell’Emilia Romagna alle elezioni regionali conferma trionfante una sfilza di autostrade completamente inutili, si celebrano i primi km del tunnel più superfluo d’Europa, quello della Valsusa, e le timide anche se un po’ disordinate misure di riduzione dei sussidi fossili (18,1 miliardi di euro, quasi una manovra…) proposte da Sergio Costa si sono scontrate con le furiose proteste di chi si sente minacciato e promette battaglia. Ma il punto è che più tardi ci decidiamo più costoso e penoso sarà.

Perché la dura realtà è che oggi, alla fine di una settimana di mobilitazione e di un summit a New York deludente, non c’è alcun paese davvero in linea con gli impegni presi a Parigi di riduzione delle emissioni e investimenti verdi: neppure la Svezia, patria di Greta e ancora meno la Germania. Nonostante il pacchetto Clima sia stato celebrato in Italia come un passo importante e sicuramente lo è, soprattutto se comparato all’approssimazione e la modestia (almeno per ora) del Green deal italico, da più parti si è osservato che, in una situazione nella quale la società tedesca è pronta a misure ambiziose e vincolanti, le finanze sono a posto e il mondo economico è attrezzato a investire, in realtà le scelte più difficili sono solo annunciate e starà al prossimo governo metterle in pratica e in ogni caso avranno un impatto modesto: la tassa sulla CO2 non entrerà in vigore se non fra due anni e a un prezzo bassissimo, non ci sono garanzie perché il ricavato venga usato per misure di accompagnamento sociale della transizione; le misure di uscita dal carbone, la spinta delle rinnovabili e della ristrutturazione energetica delle abitazioni battono la fiacca, non si prevede di ridurre i vantaggi fiscali sul diesel o di introdurre quote obbligatorie sulla mobilità elettrica, niente promozione dell’agricoltura biologica: come sempre, il diavolo sta nei dettagli e la “KlimaKanzlerin”, come veniva soprannominata la Merkel, ha perso il suo smalto. Ma la partita si giocherà anche a Bruxelles, con gli impegni presi da Ursula Von der Leyen di aumentare gli obiettivi di riduzione delle emissioni al 55% entro il 2030 e a zero entro il 2050.

Quindi è importante che ci si mobiliti intorno alla “emergenza climatica”, intendendo con questo la necessità di mettere in campo al più presto misure supplementari per la riduzione delle emissioni e dei loro effetti, il ri-orientamento dell’economia, della spesa pubblica e dei comportamenti individuali secondo un calendario che ci permetta di arrivare a emissioni zero il più presto possibile e in ogni caso prima del 2050, in coerenza con gli impegni presi a Parigi.

Nonostante i rischi di “greenwashing” che vanno denunciati, è importante che già sia stata dichiarata da 1039 grandi e piccole città nel mondo, di cui 26 in Italia oltre a 3 regioni (Liguria, Emilia Romagna e Toscana). Che si ribatta con i fatti alle tesi farlocche dei negazionisti e si costruisca una vasta alleanza che metta insieme politica, media, economia, associazioni, giovani e meno giovani, dando spazio alle ragioni della scienza e protagonismo a una ragazza testarda e ai giovani, che non stanno solo in piazza, ma anche nelle scuole e nelle università, in famiglia e sempre di più nei media, perché riescano a far capire a milioni di persone il più rapidamente possibile le cose che noi diciamo da decenni senza la stessa efficacia.

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