La notizia è questa: salta all’ultimo momento il salvataggio della Pernigotti, l’azienda dolciaria di Novi Ligure (Alessandria) specializzata nella produzione di gianduiotti e torroni chiusa dal novembre scorso. A un passo dalla firma definitiva del contratto, prevista per il 30 settembre, il gruppo turco Toksoz che detiene lo storico marchio ha comunicato alla cooperativa torinese Spes il recesso dal preliminare stipulato a inizio agosto per il comparto cioccolato-torrone, intesa che avrebbe permesso la ripartenza della produzione scongiurando l’esubero dei dipendenti, attualmente 90.
Ora, siccome le litanie sulla chiusura di imprese e sulla vendita di noti marchi italiani del “made in Italy” all’estero, soprattutto del settore alimentare, sono senza fine, ci si comincia a chiedere: a parte il fatto che se non sono in grado di competere, è il destino che si meritano, per quale motivo gli operai non fanno quel che sanno fare, ovvero continuare a lavorare nel comparto in cui hanno competenza e specializzazione, e non rilevano loro stessi la Pernigotti, brand e impianti industriali? Non sarebbe il caso di smettere di lamentarsi e rimboccarsi invece le maniche, senza aspettare l’intervento del governo, che non ha più un soldo per salvare aziende malandate e ha già abbastanza grane sul fronte dei bilanci pubblici, oppure di imprenditori che non hanno più la vocazione, il carattere o l’animal spirit per gestire imprese piccole e medie?
Allarghiamo lo sguardo dal caso Pernigotti e vediamo come stanno le cose in generale, sul fronte normativo. In Italia la possibilità di autogestione di un’attività produttiva viene regolata dalla legge 27 febbraio 1985 n.49 (legge Marcora). Essa tutela l’occupazione attraverso l’istituzione del Fondo speciale per gli interventi a salvaguardia dei livelli di occupazione, che eroga contributi alle cooperative di produzione e lavoro.
Queste cooperative devono rispondere a determinati requisiti; come per la Pernigotti, per esempio, devono essere costituite da lavoratori in cassa integrazione, da dipendenti di aziende in crisi o sottoposte a procedure concorsuali oppure da lavoratori licenziati per cessazione dell’attività produttiva o per riduzione del personale. Le coop possono poi raggiungere il loro obiettivo di tutela attraverso l’acquisto, l’affitto o la gestione, anche parziale, delle aziende in crisi oppure intraprendendo iniziative imprenditoriali sostitutive.
La legge Marcora stabilisce anche agevolazioni finanziarie, un fondo (chiamato Fondocooper) che eroga prestiti a tasso agevolato alle cooperative che investano per ammodernare, migliorare o riconvertire le proprie strutture e permette quindi di svolgere iniziative relative alla produzione e alla distribuzione. “In diversi paesi europei e americani gli operai che perdono il posto di lavoro cercano di appropriarsi delle fabbriche che chiudono per fallimento o delocalizzazione trasformandole in cooperative autogestite”, sostengono Bruno Jossa e Ernesto Screpanti, il primo docente di Economia Politica alla Federico II di Napoli, il secondo professore di Economia della Globalizzazione all’Università di Siena. “In Italia questi processi di worker buyout si stanno diffondendo e vengono attuati usando i fondi di mobilità e il TFR e con l’assistenza organizzativa e finanziaria di Legacoop, Coopfond, banche e altre istituzioni finanziarie. Va da sé che le difficoltà sono enormi, e che non tutte queste iniziative hanno successo”.
Che una partecipazione al capitale dei lavoratori nelle imprese private comporti un aumento dell’efficienza, lo provano tutti i modelli di cogestione già esistenti nei paesi dellOccidente. Nella Repubblica Federale Tedesca ci sono attualmente più di 1.500 imprese (circa 1,3 milioni di lavoratori) con partecipazione al capitale o agli utili, riunite nel consorzio Aktionsgemeinschaft für Partnerschaft (AGP). Le forme e la dimensione della partecipazione sono differenti, ma nella maggior parte delle aziende esistono comitati consultivi eletti dai rappresentanti dei lavoratori, che decidono insieme agli imprenditori tutte le misure importanti di politica economica e produttiva, nonché la soluzione dei vari problemi tecnico-economici e socioeconomici che si presentano di volta in volta. Questo sarebbe un mondo ideale per l’Italia, una sorta di postcapitalismo come lo pensava Adriano Olivetti, in cui imprenditore e lavoratori partecipano insieme alla vita dell’azienda.
Al fondo, immaginando uno scenario in cui ci si liberi dell’asfissiante e deprimente routine costituita da bancarotte industriali, assenza di credito bancario, scioperi, licenziamenti, delocalizzazioni, chiusure o vendite all’estero di aziende, partendo proprio e portando alle estreme conseguenze il caso Pernigotti, la tesi perfetta – avrebbe gli applausi di tutti – è che la collettività, di fronte alla crisi causata dalla globalizzazione e dall’assottigliarsi dell’offerta di lavoro, per mezzo di appositi strumenti messi a disposizione dallo stato o anche e dalle organizzazioni non governative, possa favorire questi processi di autogestione o cogestione, sia con facilitazioni finanziare sia con l’adeguato intervento legislativo e del governo.
Invece di ricadere come le altre 146 aziende in crisi sulla scrivania di Stefano Patuanelli, il nuovo ministro dello Sviluppo Economico del MoVimento 5 Stelle che ha preso il posto al Mise di Luigi Di Maio, la Pernigotti potrebbe risollevarsi da sola puntando su una coraggiosa iniziativa degli stessi lavoratori. Dopo essere stati abbindolati dai turchi (chiediamo: ma non si capiva che sarebbe finita così?) se gli operai e soprattutto i loro leader sindacali locali, regionali e nazionali mostrassero visione, carattere e competenze gestionali, se la Pernigotti insomma fosse messa in condizioni di avere successo e di stare sul mercato, dopo 160 anni di storia industriale, ciò potrebbe addirittura preannunciare l’alba di una fase nuova: l’inizio di un processo di superamento del capitalismo sfrenato, oggi schiavo dell’ordoliberismo e della globalizzazione, per imboccare la costruzione di una società e di un’economia più umane, esattamente come le pensava Adriano Olivetti.