I circa 12,6 miliardi di flessibilità sul deficit strutturale che il governo Conte 2 chiederà alla Commissione europea per il 2020 non sono un record assoluto. L’esecutivo di Matteo Renzi, invocando il ciclo negativo e le clausole per le riforme strutturali, gli investimenti e le “emergenze” rifugiati e sicurezza, ottenne nel 2016 da Bruxelles il via libera a uno scostamento da oltre 14 miliardi. Nel 2017 il successore Paolo Gentiloni, oggi commissario in pectore agli Affari economici, ha incassato uno spazio di manovra di 6 miliardi e per l’anno dopo la Ue ha concesso un “margine di discrezionalità” di 5 miliardi. “Nel complesso”, ricorda l’economista Veronica De Romanis, “considerando anche la modulazione degli sforzi richiesti in base all’andamento dell’economia l’Italia ha goduto finora di oltre 30 miliardi di flessibilità” – come ama ricordare il presidente uscente della Commissione Jean Claude Juncker – “a dimostrazione che il Patto prevede già ampi spazi di manovra”. Quanto al Conte 1, dopo lo scontro autunnale sul deficit e la manovrina estiva i gialloverdi per il 2019 hanno chiesto e ottenuto solo 3,2 miliardi per il crollo del ponte Morandi a fronte della promessa di 18 miliardi di introiti da privatizzazioni rimasta solo sulla carta.

La flessibilità prevista dalle regole esistenti – di cui comunque la prossima Commissione valuterà una revisione per semplificare i troppi parametri di cui tener conto – è stata “istituzionalizzata” nel gennaio 2015, quando la commissione Juncker ha approvato linee guida che descrivono nel dettaglio i casi in cui un Paese può ridurre il proprio indebitamento strutturale (la differenza tra entrate e uscite depurata dagli effetti del ciclo e dai contributi straordinari) meno di quanto previsto normalmente. Può fare più deficit, per esempio, chi si impegna in riforme strutturali che nel lungo termine avranno un impatto positivo sulla crescita o subisce eventi straordinari che mettono sotto stress i conti. Vedi il dissesto idrogeologico (frane, terremoti) o l’arrivo massiccio di migranti che richiede spese per il salvataggio e l’accoglienza.

Per Renzi e Gentiloni 25 miliardi in tre anni – Renzi nel 2015 rivendicò di aver ottenuto il cambio di rotta nell’ambito dell'”accordo politico per l’elezione di Juncker” – anche se nel 2017 Emma Bonino sostenne che c’era stato uno scambio tra flessibilità e via libera agli sbarchi in Italia – e sfruttò da subito l’allargamento dei cordoni della borsa. Nel 2015 Roma chiese e ottenne uno 0,3% di flessibilità (circa 500 milioni) per i rifugiati e in più alla luce delle condizioni economiche “eccezionalmente negative” usufruì della possibilità di tagliare il disavanzo strutturale solo di 0,25 punti di pil invece degli 0,5 prescritti in tempi normali. In tutto lo sconto fu dello o,28% del pil, 5 miliardi dell’epoca.

Per il 2016 la richiesta fu ben più corposa: Renzi e Padoan rivendicavano circa 16 miliardi di flessibilità. Alla fine se ne videro accordare oltre 14 sulla base di tre clausole: quella che permette di tener fuori dal deficit i contributi al fondo istituito dal piano Juncker per promuovere gli investimenti, quella riconosciuta agli Stati che fanno riforme strutturali (vedi il Jobs Act e la riforma della pubblica amministrazione) e quella per l’emergenza migranti abbinata in extremis al pacchetto culturasicurezza che comprendeva tra l’altro il bonus di 500 euro per i neodiciottenni.

L’anno dopo Gentiloni, subentrato a Renzi a Palazzo Chigi dopo la sconfitta al referendum costituzionale del 4 dicembre 2016, ha ottenuto uno 0,35%, pari a 6 miliardi, di cui 2,7 per i rifugiati e il resto per la “salvaguardia e messa in sicurezza del territorio” dopo il terremoto del centro Italia dell’agosto 2016.

Nell’anno elettorale un “margine di discrezionalità” di 5 miliardi – Nel 2018 ci sono state le elezioni e la Commissione, nonostante la robusta crescita del 2017 che ha riportato finalmente l’Italia in condizioni cicliche “normali”, ha deciso di accordare al governo uscente e a chi ne avrebbe preso il posto un “margine di discrezionalità” dello 0,3% – circa 5 miliardi – per “bilanciare l’esigenza di stabilizzazione e le sfide della sostenibilità” evitando una stretta che rischiava di deprimere pil e occupazione. Di conseguenza ha ridotto di buon grado lo sforzo strutturale richiesto dallo 0,6 allo 0,3 per cento.

I gialloverdi chiedevano di deviare di 14 miliardi, ne hanno ottenuti 3,2 – Per il 2019 i gialloverdi, nella famosa notte dell'”abolizione della povertà“, contavano di peggiorare il disavanzo strutturale di 0,8 punti di pil, oltre 14 miliardi. Nei mesi successivi segnati dallo scontro con la Ue e dal progressivo aumento dello spread, hanno dovuto ridurre le ambizioni e portare il deficit nominale dal 2,4 annunciato al 2% del pil con la manovrina correttiva da 7,6 miliardi di euro varata a luglio. Di conseguenza il saldo strutturale, secondo i calcoli della Commissione, alla fine è migliorato di 0,2 punti. Tuttavia l’aggiustamento strutturale inizialmente richiesto era di 0,6 punti. Il ministro Giovanni Tria ha poi rivendicato “spese di natura eccezionale” per il dissesto idrogeologico e la messa in sicurezza della rete stradale e della viabilità, per un costo totale di 3,6 miliardi: ne ha ottenuti (anche se gli importi verranno confermati solo ex post, quando ci saranno i dati di consuntivo) 3,2 per il primo anno e 3,6 per il 2020. Un’eredità che resta in dote al successore Roberto Gualtieri. Ma il nuovo titolare del Tesoro, contando sulla sponda della futura Commissione guidata da Ursula von der Leyen che si insedierà l’1 novembre, oltre a questa clausola chiede anche di peggiorare il deficit strutturale dello 0,1% invece che correggerlo dello 0,6% come era stato raccomandato da Bruxelles. Questa ulteriore flessibilità dello 0,7%, pari a 12,6 miliardi, è tutta da conquistare.

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