L'authority si è opposta all'uso dell'Anagrafe dei rapporti finanziari per individuare tutti i contribuenti che spendono troppo rispetto a quanto dichiarato. Alessandro Santoro, docente di Scienza delle finanze ed ex consigliere di vari esecutivi, spiega che promuovere i pagamenti tracciabili risolve solo una parte del problema. Tolti questi vincoli, poi, occorre dotare le Entrate di professionisti in grado di analizzare i dati
Per contrastare il fenomeno tutto italiano dell’evasione di massa manca un tassello fondamentale. Sempre lo stesso, da molti anni: l’utilizzo su larga scala della miniera di informazioni raccolte nell’Anagrafe dei rapporti finanziari per individuare i contribuenti che spendono troppo rispetto a quanto dichiarato e vanno controllati. “Oggi i dati sui conti correnti oggi sono praticamente inutilizzati a causa dei paletti messi dal Garante della privacy. E le Entrate, malgrado gli sforzi indubbi degli ultimi anni, non sono ancora del tutto pronte per usarli al massimo delle loro potenzialità”. A mettere il dito nella piaga, nelle ore in cui il governo Conte 2 studia come incentivare l’uso di carte e bancomat, è il vicedirettore del dipartimento di Economia a Milano Bicocca Alessandro Santoro, che di contrasto all’evasione si occupa da vent’anni come accademico e consigliere di diversi esecutivi. Il suo avvertimento è chiaro: se non si trova il modo di eliminare i paletti messi dall’authority a quella che in gergo tecnico si chiama “profilazione individuale del rischio fiscale“, premiare chi usa carte e bancomat invece del contante è cosa buona e giusta – nonché cruciale per contrastare il riciclaggio – ma non basta per recuperare gli oltre 100 miliardi l’anno di tasse e contributi non pagati. Perché, se nessuno incrocia i dati, “la tracciabilità dei pagamenti è solo teorica”.
Prima scopri l’evasore, solo dopo puoi accedere ai dati – La sostanziale impotenza del fisco nel ridurre la montagna dell’evasione secondo Santoro ha due cause che vanno a braccetto. E vanno eliminate con due mosse coordinate. La prima è “la tutela della privacy così come viene interpretata dal garante”. Che “si è opposto alla profilazione individuale del rischio fiscale tramite l’utilizzo massivo dei dati dell’Anagrafe dei rapporti finanziari“, in cui come previsto dal decreto Salvaitalia del governo Monti vengono raccolte le informazioni su saldo iniziale e finale dei conti correnti e di deposito (a inizio e fine anno) e l’importo totale degli acquisti con carta. Informazioni che dovrebbero essere incrociate con le dichiarazioni dei redditi per individuare i contribuenti che spendono troppo rispetto ai guadagni resi noti al fisco e vanno quindi sottoposti a controlli. Invece “l’authority ha imposto che l’incrocio dei dati “a monte” venisse fatto solo a titolo sperimentale, su poche centinaia di posizioni”. La sperimentazione sulle società è partita lo scorso anno e quest’estate è stata allargata alle persone fisiche. Ma sempre su piccolissima scala.
A valle, al contrario, l’utilizzo è consentito: sono le cosiddette indagini finanziarie, “che partono però quando c’è già un’indagine in corso”. Un paradosso: prima bisogna scoprire l’evasore e solo dopo si può chiedere – peraltro “con una procedura farraginosa che richiede l’autorizzazione del direttore regionale delle Entrate” – di accedere ai dati come prova delle sue dichiarazioni mancate o incomplete. Si tratta comunque di poche migliaia di casi all’anno. “Ed è una logica vecchia, concentrata su accertamenti e controlli (che per forza di cose riguardano una piccolissima percentuale di contribuenti) invece che sulla mappatura del rischio utilizzata ormai in tutti gli altri paesi”, spiega il docente. Il primo passo, quindi, è superare l’ostacolo con “una nuova legge o un’interpretazione diversa delle norme esistenti da parte dell’authority”. Ma non basta. “Se oggi l’Agenzia non riesce a usare con tecniche di data mining e machine learning i miliardi di dati sulla fatturazione elettronica tra aziende questo non dipende dal garante”, che tutela i dati delle persone e non quelli delle società.
Agenzia delle Entrate da potenziare – Il fatto è che, una volta tolti i paletti alla profilazione su larga scala, occorre un’amministrazione finanziaria che sappia sfruttarli. E l’Agenzia delle Entrate “nella composizione attuale, dopo la sentenza della Consulta che ha dichiarato l’illegittimità di centinaia di posizioni dirigenziali e in attesa dell’esito dei concorsi per funzionari e dirigenti di seconda fascia, non è in grado di utilizzarli al massimo delle loro potenzialità. Gran parte dei funzionari è laureata in giurisprudenza, solo ora stanno selezionando qualche statistico e analista di dati”. “L’approccio rimane basato sulla repressione: si interviene solo dopo la dichiarazione, andando a contestare qualcosa. Al contrario occorrono professionisti che sappiano individuare i casi a rischio e usare le informazioni nel rapporto con il contribuente”. In un’ottica di efficienza si potrebbero sfruttare anche risorse presenti in società esterne all’Agenzia: “Penso a Sose e Sogei, dove ci sono competenze elevate usate finora solo per gli studi di settore (sostituiti quest’anno dagli Isa)”, ipotizza Santoro. “Si potrebbe addirittura creare un’agenzia ad hoc per la prevenzione dell’evasione e l’analisi dei dati“.
Visto che l’approccio repressivo mostra le corde, non è detto comunque che dopo aver individuato i sospetti la mossa successiva siano le “maniere forti”. Per ottenere risultati non occorre necessariamente arrivare a un accertamento: nel 2018 le lettere con la richiesta di correggere errori o dimenticanze hanno consentito di recuperare circa 1,5 miliardi. L’importante è che siano chiare: “Per esempio i contribuenti a cui è stato segnalato che non avevano dichiarato l’assegno ricevuto dal coniuge si sono adeguati”. In altri casi il “burocratese” del fisco è talmente ostico che le lettere finiscono nel cestino. Ecco perché oltre agli statistici, per affiancare i giuristi servirebbero anche degli psicologi.
Dalla mappatura del rischio alla prevenzione. “Ma non sarà Minority report” – E l’idea di Santoro è che in prospettiva occorra attrezzarsi non solo per mappare, ma addirittura per predire il rischio di evasione. “Si può fare con il machine learning, algoritmi che partendo da grandi masse di dati relativi al passato predicono comportamenti futuri. E’ lo stesso meccanismo con cui le assicurazioni profilano il rischio dei clienti e Google ci profila per capire cosa ci interessa comprare in futuro… Rischio Minority report? Credo si possa trovare un equilibrio, l’importante è tener sempre presente che la predizione ha un margine di errore. Va usata con intelligenza, per aprire un dialogo con chi risulta “a rischio”. Se ben gestito, questo sistema può ridurre di molto la conflittualità tra fisco e contribuente, i costi della giustizia tributaria, la necessità di condoni periodici per smaltire la massa di cartelle esattoriali e pure le angosce di chi entra in conflitto con l’amministrazione fiscale. Non credo esistano altre strade per abbattere l’evasione di massa”. Austria e Gran Bretagna si stanno già muovendo in questa direzione. In Belgio il Machine Learning è usato per predire se e quando i contribuenti ottempereranno al pagamento. E negli Usa la temuta agenzia esattoriale Irs ha investito massicciamente sulle tecniche predittive basate sull’uso dei Big data per contrastare i crimini finanziari.
Riceviamo e pubblichiamo la replica del Garante della privacy:
E’ del tutto infondata l’affermazione del Prof. Alessandro Santoro, riportata ieri dal Fattoquotidiano.it, secondo cui il Garante si sarebbe “opposto alla profilazione individuale del rischio fiscale tramite l’utilizzo massivo dei dati dell’Anagrafe dei rapporti finanziari”.
La lotta all’evasione fiscale è un obiettivo essenziale per il nostro Paese, anche per garantire quell’equità fiscale “promessa” dalla Costituzione. Per questo, il Garante ha sempre supportato le misure volte a rafforzare l’efficacia dell’azione di contrasto dell’evasione fiscale, pur tutelando il diritto dei cittadini al corretto trattamento dei loro dati. In ciascuno dei vari provvedimenti resi dall’Autorità in questa materia è evidente la ricerca del miglior equilibrio tra l’efficacia delle verifiche fiscali e il diritto alla protezione dei dati personali.
Mai il Garante ha espresso un veto sulle strategie di contrasto fiscale adottate dall’amministrazione. Ci si è invece limitati a valutare la compatibilità delle misure proposte con le garanzie di protezione dei dati – anche per evitare il rischio di accessi abusivi e attacchi informatici al prezioso patrimonio informativo dell’Agenzia delle entrate – e garantire l’esattezza dei dati (e quindi l’affidabilità dei criteri di calcolo) sui quali si basano gli accertamenti, così migliorandone l’efficacia. E’ bene chiarire che il Garante non ha mai impedito la profilazione sulla base del rischio fiscale, prevista peraltro dall’art. 11, comma 4, dl 201/2011, né in generale ostacolato la raccolta di dati utili agli accertamenti. Il 15 novembre 2012, in primo luogo, è stato reso parere favorevole sul provvedimento dell’Agenzia relativo alla comunicazione integrativa annuale all’archivio dei rapporti finanziari, prescrivendosi le sole misure indispensabili ad evitare il rischio di accessi abusivi.
Riguardo al redditometro, il 21 novembre 2013 l’Autorità ha soltanto prescritto all’Agenzia di ricostruire il reddito del contribuente, ai fini degli accertamenti fiscali, utilizzando spese certe e non i dati delle spese medie Istat. E questo, non soltanto ai fini della garanzia del diritto del contribuente a non essere profilato sulla base di dati erronei, che gli attribuiscano dunque un’“identità fiscale” non veritiera. Le misure prescritte dal Garante hanno contribuito a rendere più affidabili gli indici sulla base dei quali formare i profili di rischio fiscale, migliorando in tal modo l’efficacia dell’azione di contrasto dell’evasione.
Parimenti infondata è l’affermazione secondo cui “l’authority ha imposto che l’incrocio dei dati “a monte” venisse fatto solo a titolo sperimentale, su poche centinaia di posizioni”. Come può leggersi, in particolare, nel provvedimento del 20 luglio 2017, il carattere sperimentale della verifica fiscale è stato il frutto di un’autonoma decisione dell’Agenzia delle entrate, che con nota del 7 settembre 2016, “ha sottoposto all’attenzione del Garante l´intenzione di sperimentare una procedura di selezione dei contribuenti” per verificare “in relazione ad un ristretto campione (…), l’efficacia di un nuovo modello di analisi dei dati, finalizzato a individuare incongruenze tra le somme a disposizione del contribuente, rilevate dalle informazioni contenute nell’Archivio dei rapporti finanziari e i redditi e le spese desumibili dalle informazioni contenute nell’Anagrafe tributaria”. E peraltro, nel caso di specie, il Garante ha ritenuto idonee le misure previste dall’Agenzia in relazione a questo tipo di verifica fiscale.
Analogamente favorevole è stato il riscontro reso con il provvedimento del marzo 2019, pur con l’indicazione di alcuni accorgimenti utili a garantire l’effettiva correttezza del trattamento dei dati dei contribuenti, oltre alla congruità delle verifiche fiscali.
Tutt’altro che di ostacolo, dunque, l’azione del Garante si è rivelata semmai funzionale alla migliore efficacia degli accertamenti fiscali, nel rispetto peraltro del diritto dei cittadini a non essere erroneamente profilati come soggetti a rischio fiscale. L’abitudine di rappresentare la protezione dati come inutile ostacolo al libero dispiegamento dell’azione amministrativa (o delle indagini giudiziarie o della lotta all’evasione fiscale) è una costante del dibattito pubblico. Ed è segno di un pericoloso impoverimento della cultura democratica. Ma è ancor più grave se questo approccio disinformativo viene adottato dagli “esperti”, dai quali ci si attende invece attenzione e correttezza.
Antonello Soro
Garante per la privacy