La crisi globale dell’inquinamento da plastica è conseguenza di un sistema di riciclo inaffidabile su scala mondiale e le soluzioni alternative proposte dalle grandi aziende, come carta e plastiche biodegradabili e compostabili, non risolvono l’emergenza. È quanto emerge dal report di Greenpeace Il Pianeta usa e getta. Le false soluzioni delle multinazionali alla crisi dell’inquinamento da plastica, che evidenzia come le soluzioni promosse dalle multinazionali degli alimenti e delle bevande, “non riducendo a monte la produzione di packaging usa e getta, consentiranno di perpetuare un modello di business e di consumo insostenibile per l’ambiente”. La strada giusta? “Le grandi aziende – si spiega nel report – devono dare priorità alla riduzione, impegnandosi per eliminare la plastica monouso, partendo dalle tipologie di packaging superflue e più problematiche per il riciclo, riducendo il numero di imballaggi e contenitori in plastica immessi sul mercato e investendo in sistemi di consegna alternativi basati su sfuso e ricarica”. Accorgimenti lontani da quella che è la realtà. “L’industria delle fonti fossili – spiega il report – sta iniziando a reindirizzare i propri investimenti nella produzione di plastica che, secondo le stime, aumenterà del 40% nei prossimi dieci anni, arrivando a essere responsabile del 20% del consumo mondiale di petrolio”.
NESSUN IMPEGNO SUL PACKAGING MONOUSO
A invertire la rotta non basta il fatto che sempre più persone preferiscano acquistare prodotti sfusi e impiegare contenitori riutilizzabili. Nonostante gli imballaggi rappresentino circa il 40% di tutta la plastica prodotta nel mondo, infatti, secondo Greenpeace nessuna tra le grandi multinazionali come Nestlé, PepsiCo e Coca Cola si è impegnata a ridurre davvero la produzione di packaging monouso, investendo in sistemi di consegna basati sullo sfuso e sulla ricarica. “Sono molte, invece, le false soluzioni proposte”, spiega a ilfattoquotidiano.it Giuseppe Ungherese, responsabile della campagna inquinamento di Greenpeace Italia, sottolineando che “nel 2018 la Nestlè ha aumentato la produzione di plastica del 13% rispetto al 2017, portandola a 1,7 milioni di tonnellate”.
LA CARTA
Molte aziende, come McDonald’s e Nestlè stanno cercando di risolvere il problema sostituendo parte degli imballaggi con packaging in carta. In effetti, si tratta di un materiale percepito come più sostenibile dal punto di vista ambientale, in realtà è un’alternativa altrettanto problematica. La carta deriva dal legno e dalle foreste, ecosistemi a elevata biodiversità, fondamentali nella lotta al cambiamento climatico. Il sistema del riciclo della carta, inoltre, che non è in grado di fornire, su scala globale, una quantità e qualità di fibre tali da far fronte all’aumento della domanda di packaging in carta.
LE BIOPLASTICHE
Alcune aziende stanno sostituendo parte della plastica monouso derivante da fonti fossili con plastica a base di materie prime rinnovabili (per esempio mais e canna da zucchero), spesso descritta come biodegradabile e compostabile. “Gran parte delle tecnologie attualmente disponibili – scrive Greenpeace – non consentono di produrre packaging interamente in materiale rinnovabile”. Spesso, confezioni e imballaggi in bioplastica sono realizzati solo in parte con materiali rinnovabili. “La bottiglia NaturALL – spiega il report – che sarà adottata in alcune nazioni da Danone e Nestlé, presentata come ‘bio’, è costituita per il 70% da plastica tradizionale. È bene diffidare da termini come ‘eco’, ‘bio’ o ‘green’, spesso utili solo per il marketing”. Tra l’altro, la maggior parte della plastica a base biologica proviene da colture agricole che, oltre a competere con la produzione di alimenti, fanno cambiare l’uso del suolo, con un aumento delle emissioni inquinanti provenienti da questo settore, oggi causa principale di deforestazione e distruzione degli habitat naturali, nonché responsabile di un quarto delle emissioni di gas serra.
CANNUCCIA E VASCHETTA DEL GELATO
Gli imballaggi monouso e le soluzioni proposte finora dalle multinazionali sono andate tutte in questa direzione. “Dalla cannuccia del Nesquik di Nestlè per il mercato europeo, che sarà di carta invece che di plastica – continua Ungherese – fino alla vaschetta del gelato Carte d’Or, prodotta da Unilever con un materiale misto di carta e bioplastica. Soluzioni che spostano il problema da un materiale all’altro, non privo di impatto ambientale”. Eppure, proprio la scorsa primavera, Unilever ha presentato la nuova confezione e annunciato una serie di obiettivi sostenibili raggiunti e da raggiungere nei prossimi anni. Entro il 2025, ha dichiarato, tutti i packaging dei prodotti presenti nel mondo “saranno completamente riutilizzabili, riciclabili o compostabili”.
BIODEGRADABILE E COMPOSTABILE
Ma Greenpeace sottolinea che per i consumatori è spesso fuorviante anche l’utilizzo di termini come ‘biodegradabile’ e ‘compostabile’. I prodotti definiti ‘biodegradabili’, infatti, non si decompongono se dispersi nell’ambiente o gettati in discarica, ma solo in determinate condizioni di temperatura e umidità, raramente presenti in natura”. La plastica compostabile, invece, è progettata per decomporsi del tutto solo in condizioni tipiche degli impianti di compostaggio industriali o, più raramente, in sistemi di compostaggio domestico. “Non in tutto il mondo – spiega Greenpeace – sono presenti questi impianti e, se ci sono, non sono in grado di gestire grandi quantità di rifiuti”. Queste plastiche spesso finiscono per essere smaltite in discarica o negli inceneritori.
IL RICICLO
Le multinazionali hanno a lungo promosso il riciclo come soluzione principale, eppure più del 90% della plastica prodotta dagli anni Cinquanta non è mai stata riciclata. In Ue solo il 31% dei rifiuti in plastica raccolti nel 2016 è stato riciclato. Persino per alcune plastiche realmente riciclabili come il Polietilene tereftalato (PET) e il Polietilene ad alta intensità (HDPE) i tassi di riciclo sono molto bassi. Gran parte del packaging in plastica, poi, è soggetto a downcycling, ossia viene riprocessato per prodotti di qualità inferiore non riciclabili. Inoltre, negli ultimi anni è cresciuta la quantità di packaging composto da diversi materiali difficili, se non impossibili, da riciclare. “Produrre plastica vergine spesso costa meno rispetto a quella riciclata – spiega Greenpeace – quindi, anche se tecnicamente è possibile, alcune tipologie di plastiche non vengono riciclate perché trovano difficile collocazione sul mercato”.
IL RICICLO CHIMICO
Trentasette multinazionali si sono impegnate ad aumentare la quantità di plastica riciclata nei loro imballaggi. In questo modo, la domanda di plastica riciclata crescerebbe di 5-7,5 milioni di tonnellate entro il 2030. “È difficile che tale impegno si concretizzi considerando i limiti del sistema di riciclo, incluso quello chimico che si sta affiancando recentemente al riciclo meccanico”, spiega Greenpeace. Con riciclo chimico, infatti, si intendono diverse tecnologie (ad esempio gassificazione e pirolisi) finalizzate a minimizzare il rischio di downcycling. Alcune di queste, però, già usate in passato come alternative all’incenerimento, sono state abbandonate per i costi e le emissioni inquinanti, mentre altre opzioni non sono state mai completamente sviluppate. “La conoscenza degli impatti ambientali e sanitari di queste tecnologie – si spiega nel rapporto – è ancora limitata” e ci sono serie preoccupazioni riguardo le sostanze chimiche pericolose utilizzate per ‘purificare’ la plastica, l’uso intensivo di energia e la necessità di costruire infrastrutture costose per realizzare gli impianti. “Eppure – conclude Greenpeace – le grandi multinazionali le includono nei loro progetti di responsabilità sociale d’impresa, mentre compagnie petrolchimiche cominciano a investire in start-up di riciclo chimico in parte finanziate dalle multinazionali degli alimenti e delle bevande”.