Alcuni candidati sindaco di Reggio Emilia andarono a fare campagna elettorale a Cutro, in provincia di Crotone. Cioè la cittadina calabrese da cui proviene la cosca di ‘ndrangheta attiva in Emilia. In quel modo si resero protagonisti di “comportamenti che oggettivamente hanno rafforzato l’associazione“. C’è anche il noto viaggio in Calabria di alcuni degli aspiranti primi cittadini alle elezioni del 2009 tra le motivazioni della sentenza di primo grado del processo di Reggio Emilia. E tra quei politici c’era anche l’allora sindaco Pd – poi rieletto – Graziano Delrio. È solo uno degli episodi ricostruiti nelle oltre 5000 pagine in cui giudici spiegano le condanne del rito abbreviato mettendo l’accento sulla “disponibilità degli abitanti con i quali i mafiosi vengono in contatto ad accettarne valori e metodi”.
Il punto di forza della ‘ndrangheta in Emilia Romagna, dice il Collegio Giudicante, è la sua “capacità di intessere relazioni vantaggiose con rappresentanti del mondo imprenditoriale finanziario e politico istituzionale”. E il processo Aemilia è l’emblema della “storia nazionale tutta intera, che rende le organizzazioni mafiose in grado di imporsi grazie all’invincibile tentazione dell’adesione al metodo mafioso nei ricchi territori del nord”.
È un atto d’accusa pesante, che affossa il paradigma secondo cui “i sodalizi mafiosi non possano annidarsi in territori fiorenti, dotati di alto senso civico e considerati refrattari alle logiche intimidatorie e omertose”. Al contrario il processo Aemilia “consente di radiografare un’organizzazione mafiosa egemone sul piano criminale fino al punto da diventare rilevante se non dominante in numerosi segmenti dell’economia” intercettando “esponenti di rilevanti settori del contesto locale che non hanno indietreggiato dinanzi alla prospettiva di realizzare anche un profitto personale”.
Molti politici e amministratori vengono bacchettati dai giudici che dicono: “L’associazione disponeva di consiglieri comunali eletti col voto della comunità calabrese nelle fila della maggioranza e dell’opposizione. Vale segnalare per tutti lo scioglimento del consiglio comunale di Brescello”. Due vicende sono particolarmente significative. La prima è appunto “la campagna elettorale per l’elezione a Sindaco di Reggio Emilia nel 2009 che fu tenuta da tutti i candidati del tempo anche a Cutro, ove i candidati stessi si recarono alla festa del Cristo Redentore e dove fecero affiggere i propri manifesti elettorali. Comportamenti che oggettivamente hanno rafforzato l’associazione; non si tratta di tenere conto delle legittime esigenze della comunità cutrese/reggiana onesta che vive e vota a Reggio Emilia ma del grave peccato di omissione nel non distinguere tra costoro e i mafiosi”. In sostanza secondo i giudici “il punto non è fare o non fare la campagna elettorale a Cutro ma averla fatta senza dire la sola cosa che andava detta e cioè che i voti mafiosi non erano graditi e che i mafiosi sarebbero stati cercati, perseguiti e allontanati dalla città”. Per la precisione non furono tutti gli aspiranti sindaco ad andare in Calabria: andarono a Cutro, oltre a Delrio, il candidato di Forza Italia (Fabio Filippi) e quella dell’Udc (Antonella Spaggiari). Non si recarono in Calabria l’aspirante candidato dei 5 stelle Matteo Oliveri (che attaccò gli altri competitor per questa scelta), quello della Lega (Angelo Alessandri) e Angelo Scarpati di una lista civica.
La seconda vicenda è l’incontro con il prefetto Antonella De Miro voluto a Reggio Emilia nel 2012 da “alcuni consiglieri di origine calabrese: Gualtieri della destra, Olivo e Scarpino della sinistra”. Li accompagnava sempre il sindaco Del Rio ma furono loro a portare il discorso sui provvedimenti di prevenzione della De Miro: “I consiglieri utilizzarono alcune dichiarazioni del Procuratore Generale come pretesto per avvicinare il prefetto, allo scopo di ammorbidirla sulle interdittive”. Quella era la vera ragione secondo i giudici, per i quali “l’episodio si colloca su un piano grigio e ambiguo rivelatore di una mancanza di compattezza delle istituzioni nel sostenere l’azione del prefetto”. Si tratta, ad avviso del tribunale, “di uno degli aspetti più significativi in questa vicenda, posto che dai rappresentanti istituzionali di una comunità flagellata dalla ‘ndrangheta ci si sarebbe dovuto attendere non presunta preoccupazione per una inesistente generalizzazione ma, insieme agli incoraggiamenti, segnalazioni e prove per allargare il raggio d’azione della prefettura, dovendosi ritenere primario interesse della comunità anche calabrese l’eliminazione dal mercato delle imprese inquinate”.
Più in generale secondo i giudici di Aemilia l’azione dei “politici cutresi nel consiglio comunale di Reggio Emilia è sempre stata particolaristica. Sono intervenuti per cercare di indebolire e isolare il prefetto De Miro, ma non possono esservi dubbi che quegli interventi avessero anche un effetto di intimidazione”. Quanto il prefetto fosse una spina nel fianco degli affari di ‘ndrangheta lo dicono i numeri riportati dalla sentenza: “Tra il 2009 e il 2014 sono state trattate più di 16mila pratiche fra richieste di iscrizioni in white list, informazioni e comunicazioni antimafia, che hanno portato all’emissione di un totale di 61 provvedimenti interdittivi riguardanti 48 ditte, di cui 13 non di origine calabrese”. Senza l’azione di contrasto della Prefettura e del Gruppo Interforze che nacque in quegli anni, dice la sentenza, “è ragionevole pensare che l’espansione dell’associazione cutrese sarebbe giunta ad occupare spazi di fondamentale importanza come lo sport, essendo noti i tentativi di Giuseppe Iaquinta (condannato a 19 anni) di acquistare la Reggiana calcio”. E ancora: “La penetrazione dell’imprenditoria mafiosa cutrese avrebbe finito con l’espandersi e occupare altri settori, fino all’elezione di sindaci ed esponenti politici”.
*Aggiornato da redazione online alle ore 11 del 2 ottobre 2019