Avevamo lasciato la Dc Comics tra nuove speranze per Aquaman e Shazam a far da scia alla discutibile scelta di Robert Pattinson sul prossimo Batman, ma con prepotenza questo Joker sbriciola tutto riportandoci a una drammaturgia più penetrante dei Cavalieri Oscuri di Nolan. Era già uno dei film più attesi dell’anno, poi l’ovazione veneziana e il Leone d’Oro al miglior film. Ora finalmente l’uscita in sala.
Siamo tra anni Settanta e inizi Ottanta. Gotham è sommersa dalla spazzatura per un lungo sciopero contestato dai cittadini. C’è puzza di marcio anche metaforicamente, le Cadillac in strada sono spigolose nelle linee quanto le prospettive scelte per ogni inquadratura da Todd Phillips sul povero Arthur. Come un moderno Rigoletto si piega a prender calci dai bulli di turno che gli fanno colare in lacrime il trucco da pagliaccio, lavoro ingrato per un depresso che vivacchia cercando di far ridere il prossimo.
Totò raccontò dell’umana tristezza dietro la maschera del comico. Celava fame e povertà ataviche. Phillips e Joaquin Phoenix non conosceranno la nostra icona comica, ma viene citato in Joker un certo Charlie Chaplin alle prese con i suoi Tempi moderni. Le lacrime colate sul ghigno germogliano dall’altra parte dell’oceano in un cinecomic inusuale e potentissimo in ogni fotogramma. Si punta sul perdente, pure se il percorso narrativo resta quello dell’eroe, o del villain nel nostro caso.
Esplode in risate isteriche mai felici Phoenix, mostra le costole come un rettile ferito che subirà la muta. Sboccia a petto nudo aprendo le braccia come uno sparviero dal muso impiastrato di cipria o si rannicchia sotto la sua parrucca da clown come un bambino che ha subito troppo. Bada a una madre anziana e sogna la vicina di casa per evadere da una vita di solitudine. Ci fa entrare nell’epifania psicotica di un reietto dalla sua crisalide inventando un ballo stravagante, una specie di Tai Chi mescolato a lampi di swing e tip-tap, racchiudendoci in una follia che sgorgherà dallo schermo come il primo petrolio da un pozzo.
La scena della danza su una gradinata a metà strada tra quella dell’Esorcista e quella di Rocky è già iconica. Phillips lascia che l’attore mastichi fragilità e contrasti disturbanti posandoci la voce rassicurante di Jimmy Durante che canta Smile tanto quanto il calore di Frank Sinatra in Send In The Clowns, entrambi incalzati dalle musiche originali di Hildur Guðnadóttir. Le sue note ci faranno sprofondare nel cuore del protagonista come una busta della spesa piena di leccornie che a un certo punto si rompe.
Si nutre di fuga e disagio il nuovo Joker, politicamente centrato sulla rappresentazione di una società dove la comunità afroamericana offre solo personaggi positivi. Reietti, criminali, rivoltosi e potenti dalla morale discutibile sono bianchi. I problemi sono bianchi, non neri. Bianchi come il trucco di Arthur Fleck. Jack Napier non c’è più. Altro nome e altra storia per Joker. Sorvolando la particina tagliuzzata di Jared Leto in Suicide Squad, Jack Nicholson e Heath Ledger dovranno lasciarsi affiancare nell’immaginario collettivo da un nuovo genio del male. È curioso come al cinema questo character tiri fuori delle versioni così inossidabili eppure sempre così originali.
Qui di originale abbiamo anche la provenienza del regista, uno dei più raffinati autori del nuovo cinema demenziale americano. Nessuna contraddizione in termini se si conosce il basilare principio del contrasto che muove la comicità, tanto che commedie come la trilogia di Un weekend da leoni, Parto col folle e Starsky & Hutch sono tra i lavori di questo autore premiato a Venezia. Il confine tra comico e drammatico è sempre stato infranto nelle maniere più inaspettate. Ce lo hanno ribadito Benigni e Cerami, e oltreoceano anche l’ex-comico Jordan Peele, ora gran regista horror.
Phillips ci racconta l’epopea solitaria di un uomo che scopre il suo passato mentre il suo destino lo definisce ineluttabilmente. L’elemento comedy omaggia Re per una notte, come ha ricordato Robert DeNiro. Interpreta lo showman sognato da Arthur, il suo mito irraggiungibile. Ma vuoi la solitudine metropolitana del nostro incompreso, vuoi una certa ambientazione metropolitana allucinata, spesso si respira un’atmosfera alla Taxi Driver. Ma Travis Bickle è il passato. Al suo posto un rinato DeNiro adatta le classiche smorfie sul faccione tronfio di un vecchio squalo dall’artificioso paternalismo.
Si parla di devianza, depressione, solitudine e disperazione in questo cinecomic. La violenza temuta per il fragile pubblico americano in realtà punge lo spettatore dal grande schermo in maniera psicologica attraverso il singolo personaggio, ma si fa politicamente attualissima guardando al contorno sociale descritto da Phillips, rappresentazione del popolo bue pronto a indossare maschere usa e getta di una rivoluzione folle dietro a una semplice icona farcita da motti identici a paure e malcontenti comuni. All’italiana diremmo “l’ennesimo Masaniello”. Invece Joker è un film d’arte in forma e sostanza, ci colpisce come un fulmine, bagnandoci il cuore di tinta non verde speranza, ma per capelli di un mostro che incarna nuovi meandri del male.