Sessantasette uomini e due donne sono arrivati a una manciata di minuti dal 3 ottobre, la notte in cui l'isola delle Pelagie ricorda la strage del 2013. Alcuni di loro assimilano con il termine italiano "mafia" i guardacoste di Tripoli equipaggiati dall'Italia e le milizie che gestiscono il traffico di esseri umani nei centri di detenzione
Sono intirizziti da tre giorni di mare e dalla pioggia che spazza la banchina, quando alle 23,37 il primo di loro mette il piede sul molo Favaloro. Alla fine a scendere dalla motovedetta della Guardia costiera saranno 69, i protagonisti dell’ultimo sbarco silenzioso a Lampedusa. Sessantasette uomini e due donne arrivati sani e salvi a una manciata di minuti dal 3 ottobre, la notte in cui l’isola delle Pelagie ricorda la strage del 2013.
Hanno gli occhi sgranati nel buio, lo sguardo spaurito e incerto di chi non ha idea di dove andare. Piove e le forze dell’ordine li mettono velocemente al riparo dei gazebo montati sul molo diventato simbolo stesso degli sbarchi. La prima coperta termica va a una bimba di quattro anni: i guardacoste e i volontari delle ong gliela avvolgono attorno al corpo mentre è in braccio alla mamma. C’è anche un’altra donna. Sono nigeriane, saranno le prime a salire su uno dei pulmini che pian piano porteranno tutti all’hotspot che con il loro arrivo oggi ospita circa 300 persone. Gli altri arrivano tutti dal Bangladesh, tranne due uomini originari del Gambia.
I bangladesi hanno fatto tutti lo stesso viaggio: da Dacca in aereo fino a Dubai e poi da lì un altro volo per Tripoli. “Siamo partiti da Zwara (300 chilometri a ovest della capitale, ndr) tre giorni fa”, racconta in un inglese stentato un ragazzo sui trentacinque anni, mentre le forze dell’ordine continuano a far salire le persone sui pulmini. Alle due e trenta del pomeriggio hanno lanciato l’allarme mentre il loro peschereccio si trovava nella zona Sar di Malta, anche se geograficamente erano molto più vicini a Lampedusa.
Vivevano tutti a Tripoli, hanno pagato tra i 2000 e i 2500 dollari a testa per la traversata. I racconti sono simili a quelli della maggior parte dei migranti che hanno scelto la Libia per tentare la traversata. In molti raccontano di essere stati tenuti rinchiusi per mesi dai trafficanti: “Mi hanno tenuto in una casa per un anno e mezzo, mi hanno lasciato andare solo quando sono arrivati i soldi che chiedevano”.
Riparandosi dalla pioggia, un altro ragazzo spiega di essere stato sequestrato per sei mesi da quella che lui chiama “mafia“. Chi è la mafia? Quale mafia? “Sono quelli che gestiscono i centri”, continua parlando in hindi, tradotto da un volontario che conosce la lingua. Un altro, a fianco a lui, prende a raccontare: “Prima di oggi ho tentato tre volte di venire in Italia con la barca e tutte e tre le volte sono stato riportato in Libia dalla mafia”. Ha detto proprio “mafia”, usando il termine italiano?, domandiamo al traduttore. La risposta è sì: così i migranti sull’altra sponda del mare indicano la “guardia costiera libica” equipaggiata dall’Italia, la assimilano alle milizie che gestiscono il traffico di esseri umani nei centri di detenzione. Chiamano “mafia” anche quelle. Un brand internazionale. Il giovane che parla è tra gli ultimi sul molo. Pochi secondi dopo arriva il pulmino che porterà lui e i pochi rimasti all’hotspot, dove almeno li aspetta un letto caldo.