Oggi si celebra la Giornata della memoria e dell’accoglienza, istituita con una legge dello Stato per ricordare le vittime del naufragio del 3 ottobre 2013 in cui 368 migranti annegarono a mezzo miglio dalle coste di Lampedusa, a un passo dalla salvezza dopo aver attraversato mezza Africa e il mar Mediterraneo.
Una strage che scosse le coscienze e suscitò un’ondata di emozione cosi forte che l’Italia (da sola, senza l’Unione europea né Frontex) varò la missione Mare Nostrum perché quella tragedia non si ripetesse e mise in moto un complicato meccanismo di ricerca e condivisione di informazioni provenienti dall’Africa per procedere al riconoscimento delle salme. Perché le madri e i padri avessero un corpo su cui piangere. Perché dei morti non rimanesse che quella manciata di numeri a cui oggi spesso politica e media riducono le migrazioni.
Una lezione in questo senso l’ha impartita pochi giorni fa Sergio Mattarella. “I ragazzi hanno diritto di sperare che i loro progetti migliori potranno realizzarsi. La scuola è il terreno dove coltivare questi progetti, e farli crescere – ha detto il 16 settembre inaugurando l’anno scolastico a L’Aquila – Il pensiero corre a quel ragazzino di 14 anni, che veniva dal Mali, che aveva attraversato il deserto ed è annegato in un naufragio nel Mediterraneo. Quando ne hanno ritrovato il corpo, si è scoperto che aveva cucito, nel vestito, la sua pagella. La proteggeva come la sua carta di identità, e la sua speranza”.
Voleva, il capo dello Stato, che la storia del ragazzino morto nel peschereccio affondato il 18 aprile 2015 – il più grande naufragio civile della storia del Mediterraneo dal dopoguerra con circa mille vittime – fosse da sprone per gli studenti che quel giorno lo ascoltavano per l’apertura dell’anno scolastico. Ma con il suo gesto è andato oltre, ha fatto una cosa che quasi nessuno fa, spesso neanche i giornalisti. Ha toccato la carne viva di un fenomeno – quello delle migrazioni – che nella maggior parte dei casi io e mi miei colleghi raccontiamo fermandoci alla superficie, fatta soltanto di cifre e statistiche.
“Quest’anno in Italia sono arrivate tot persone”. “Nei centri d’accoglienza italiani sono ospitati tot richiedenti asilo“. “Abbiamo ridotto gli sbarchi dell’80%”. “Con noi al governo non arriva più nessuno”, ripeteva il penultimo capo del Viminale che all’improvviso si è autosilurato dal governo (che poi, se si va davvero vedere le cifre si scopre era una bufala, perché tra il 5 giugno 2018 e il 9 agosto 2019 gli sbarchi non si sono mai fermati e l’ingente riduzione degli arrivi registrata negli ultimi due anni è da attribuire al patto con la Libia firmato dal governo di Paolo Gentiloni). E molti di noi a fare le addizioni con il pallottoliere e a proporre una narrazione degli sbarchi simile al conto che il fruttarolo (massimo rispetto per la categoria) fa al mercato segnando il costo di zucchine e melanzane su una busta di carta.
Il problema è che il modo di narrare cambia il modo di vedere la realtà e se si osservano le migrazioni solo attraverso gli occhiali kantiani dell’aritmetica pura si perde di vista l’umanità. I grandi numeri annacquano la percezione, al punto che un fenomeno così complesso e dalle ragioni profonde diventa un enorme minestrone in cui si mescolano dati puramente contabili (in molti casi farlocchi: ricordate la promessa di rimpatriare “600mila clandestini” sbandierata in campagna elettorale da quello di cui sopra e che al momento dei fatti, ovvero di procedere ai rimpatri, diventarono improvvisamente “90mila”?) che finiscono per coprire e nascondere le vite degli uomini che ne sono protagonisti. Perché l’utilizzo dei grandi numeri impedisce di vedere le persone, gli individui, e crea masse indistinte che non contengono anima, non provano dolore, non hanno figli, genitori, fratelli, sorelle, amori, sogni o aspirazioni. Tabelle in file Excel in cui la vita è cancellata.
Per questo sono importanti giornate come quella del 3 ottobre, perché servono per riprendere contatto con la realtà, provare ad ascoltare le storie di chi ha attraversato il mare, guardare gli occhi di chi ha perso un caro nella traversata e chiedere loro da dove vengono, quali sono stati i motivi che li hanno spinti a partire, quali sono le condizioni di vita nel loro paese, in quali termini pensano al loro futuro e provare, noi, a immaginare il potenziale che queste persone portano con sé. È l’unico modo per andare oltre la retorica dei numeri e acquisire gli elementi necessari a comprendere cosa spinge decine di migliaia di persone a prendere il mare ogni anno facendo finta di non aver paura della possibilità di annegare come topi nella stiva di un peschereccio.