Ricordate il consorzio nazional popolare Fincantieri, Italferr (Gruppo Fs) e Impregilo, a cui nello scorso dicembre è stata affidata la progettazione e costruzione del ponte Morandi disegnato da Renzo Piano?
All’epoca, fu il commissario (e sindaco di Genova) Marco Bucci a far ingoiare un bel rospo agli italiani, decidendo l’affidamento senza gara per avviare la ricostruzione il prima possibile. Tra le manifestazioni d’interesse escluse c’era anche quella del consorzio Salc e dei cinesi di Cccc (quelli che hanno costruito il ponte più lungo del mondo), che prevedeva una sovrapposizione parziale al tracciato esistente con la realizzazione di tre corsie per senso di marcia, oltre alla corsia di emergenza rispetto al viadotto preesistente e rispetto a quanto richiesto dalla lettera di invito.
Tale progetto avrebbe assicurato una più lunga prospettiva di rispondenza alle esigenze del traffico nel futuro, una maggiore scorrevolezza (con il conseguente calo dell’impatto ambientale da emissioni) e una maggiore sicurezza. E sarebbe pure costato meno: 175,7 milioni di euro in tutto – 25 in meno del progetto Fincantieri-Italferr-Impregilo – con l’aggiunta di condizioni molto favorevoli: sospensione dei pagamenti sino alla consegna dell’opera finita; disponibilità del proponente ad assumere il ruolo di soggetto finanziatore ai sensi della legge speciale; disponibilità a convertire il finanziamento in concessione/sub-concessione dell’opera, sgravandone il costo dalle risorse stanziate dalla legge speciale, se ne fosse stato necessario. Resta quindi un vero mistero il motivo per cui questa offerta non sia stata almeno valutata. Se le opere pubbliche si fanno così, ecco spiegato uno dei motivi dell’enorme debito pubblico.
Anche perché è di questi giorni una notizia che lascia di stucco: il nuovo ponte Morandi è, come quello crollato, ancora a due corsie per senso di marcia. Proprio qualche giorno fa è stata posata in pompa magna la prima arcata. Una scelta negativa da almeno due punti di vista. Innanzitutto, con la stessa spesa si potrebbe realizzare una infrastruttura dalla capacità almeno di un terzo superiore a quella vecchia. In secondo luogo, con questo intervento ci si preclude la possibilità di considerare le alternative alla Gronda esaminate dalla Struttura tecnica del ministero dei Trasporti sulla Gronda genovese, tutte di costi inferiore ma proporzionalmente più capaci di generare benefici.
Il crollo del Morandi aveva infatti suggerito ai tecnici di riconsiderare l’intera logica della Gronda, nata in buona misura per la necessità di superare il vincolo di capacità del ponte attraverso un nuovo viadotto e un lungo bypass in galleria a nord del capoluogo ligure. Non si tratta solamente, come si è detto, di una “gronda ridotta”, ma di interventi “a rete” che hanno l’obiettivo di adeguare la capacità dei vari tratti in maniera più rispondente all’effettiva domanda; domanda che infatti è ben diversa tra la A7 e la tratta di Ponente.
Invece, nessuna delle ipotesi analizzate dalla Struttura tecnica di missione in alternativa alla Gronda – quella proposta da Spea Engineering S.p.A. (Società progettazioni edili autostradali, società del gruppo Atlantia) – potrà più essere adottata, proprio per l’assenza della terza corsia del nuovo ponte che, assieme ad altri interventi “mirati” di potenziamento, avrebbe garantito – con una spesa, un impatto economico e ambientale decisamente inferiori (la Gronda costa 4,7 miliardi e i lavori dureranno almeno dieci anni) – l’intera capacità viaria necessaria tra Levante e Ponente.