Se dovessi con una battuta riassumere la nota al Def riferita alla sanità direi che è la perfetta conseguenza del Def dello scorso anno con piccole variazioni di quantità; quindi il governo che l’ha fatta è “giallo verde rosso”. Probabilmente considerando i tempi stretti tra crisi di governo e finanziaria la continuità per il momento è inevitabile.
Il problema è che al ministro Roberto Speranza, secondo me, non conviene per nulla essere l’estensione di chi è venuto prima; e non conviene neanche alla sanità pubblica, ai cittadini, agli operatori. Sul piano elettorale si tratta di una politica, nel suo impianto, iniziata dal Pd a partire dal governo Renzi e continuata con minime modifiche dal M5S, che per tante ragioni a partire dalla tentazione privatistica ha fatto perdere voti agli uni e agli altri. E’ una politica che decidendo di agire solo sulla gestione dell’ordinario espone il sistema pubblico al rischio di essere disconfermato per obsolescenza. Un sistema che non si sforza di adeguarsi ai cambiamenti in essere è destinato alla marginalità. E’ una politica che si riduce solo a scarsi rifinanziamenti, che sfida le leggi dell’economia nel senso che non si cura della non crescita del paese, dell’aumento del deficit pubblico, dell’andamento del Pil ma soprattutto delle tante diseconomie che vi sono nel sistema. Come si fa a rifinanziare ciò che è diseconomico? Rifinanziare un sistema invariante che comunque sta in piedi da 40 anni, senza nessuna strategia di cambiamento, alla fine rischia di esporci al default come già è avvenuto con le vecchie mutue.
No, secondo me, Speranza farebbe bene, quanto prima, a caratterizzare le sue politiche sanitarie e a dare una propria impronta. Del resto essere ministro a 40 anni è la sua grande occasione.
Non do mai consigli non richiesti ma posso dire cosa farei io se fossi al posto di Speranza:
– dichiarerei la morte di quel teorema che punta a ridurre la spesa sanitaria in rapporto al Pil per dare più spazio al privato e al terzo settore. Farei una scelta di campo: niente seconda gamba, il sistema è uno ed è quello pubblico. Chi vuole delle mutue o dei fondi alternativi se li paga ma basta con gli incentivi fiscali.
– Non mi limiterei tuttavia al rifinanziamento del sistema ma metterei mano ad una “quarta riforma”, ovvero renderei “sostenibile in altro modo” il sistema adeguandolo a quattro cose: al cittadino, alla scienza, alla economia, all’etica. Oggi il nostro sistema costa quanto costa la sua regressività.
– Manifesterei il più radicale disaccordo con la teoria sostenuta da chi lo ha preceduto che per ragioni di sostenibilità si debba privatizzare parte del sistema pubblico. E’ una cavolata. Si tratta di rinnovare la nozione di sostenibilità, come ci insegna oggi la sfida climatica, dichiarando che il sistema più sostenibile, dati alla mano, è quello pubblico. Per definizione quello privato non solo è ingiusto ma è insostenibile.
– Non mi limiterei a dichiarare il valore dell’universalismo e dell’eguaglianza ma cambierei da subito i criteri di riparto delle risorse tra le Regioni. L’obiettivo è dare a ciascuna Regione le risorse secondo un indice di occorrenza, cioè un indice che quantifichi il bisogno di salute a partire dalle condizioni del territorio, dallo stato dei servizi, dai rilievi epidemiologici, e sulla base dei dati sulla deprivazione (risoluzione Nesci).
– Dichiarerei a proposito di regionalismo differenziato, che la sanità è semplicemente indevolvibile, di autonomia, le regioni ne hanno fin troppa, ma dichiarerei il mio interesse per ripensare ma sul serio la governance del sistema che fa acqua da ogni parte.
– Non farei un progetto Calabria ma farei un “progetto sud” secondo una logica nuova che definisco universalismo discreto in ragione della quale è dalle specificità e singolarità dei territori che devo ricavare una sanità ad hoc.
Il discorso sui ticket riguarda un altro paio di maniche. Per prima cosa con l’aria che tira e con le priorità che la sanità ha a partire da una riforma urgente del mercato del lavoro, personalmente il superticket non lo abolirei per ora. Per me la sua abolizione non è una priorità anche se so che è diventato il simbolo delle battaglie facili. Cioè una bandiera. Abolire il superticket costa all’incirca 400 milioni: personalmente questi milioni, nel primario interesse del cittadino, li metterei altrove.
Abolire il superticket e rendere il ticket da pagare proporzionale al reddito mi sembra una contraddizione, ma, a parte la contraddizione, il criterio della proporzionalità definisce il ticket come una tassa. Per un governo che vuole abbassare le tasse non c’è male ma mettere le tasse sulla malattia mi sembra semplicemente immorale.
Eppoi mi chiedo ma ne vale la pena? Se consideriamo che l’esenzione totale vale dai 65 anni in su a certe condizioni di reddito, e se si è disoccupati, pensionati al minimo o si hanno certe patologie, mi chiedo ma quanti sono coloro che pagherebbero veramente il ticket? E pur ammettendo un’azione del governo contro l’evasione del ticket (vi sono persone che si autocertificano esenti), non credo che si possano fare grandi guadagni.
Infine quale credibilità ha un governo che allo stesso tempo finanzia gli incentivi ai fondi integrativi e fa pagare alle persone una tassa sulla malattia? Togliamo gli incentivi agli speculatori e lasciamo in pace i malati.