Si smetterà di dire “aspetta, è meglio sentirci su WhatsApp”. Chi, pensando di sfuggire alle lunghe orecchie di chi intercetta, migrava su canali di comunicazione “alternativi” è bene che si legga il Clarifying Legalful Overseas Use of Data Act (“Cloud Act”) e riveda in modo critico la convinzione che esistano ancora modalità di conversare in incognito o comunque lontano da chi ha interesse istituzionale a conoscere certi contenuti.

La legge quadro d’oltreoceano prevede da oltre un anno accordi esecutivi sull’accesso ai dati da parte di governi stranieri ed eccoci arrivati al primo agreement. Il “patto” stipulato tra Stati Uniti e Gran Bretagna è solo un primo passo ma in quelle orme potranno muoversi anche altre nazioni: la disciplina che dovrebbe essere sottoscritta entro qualche settimana permetterà all’Autorità giudiziaria e alle Forze dell’Ordine di Sua Maestà la Regina di ottenere dai gestori di sistemi di messaggistica istantanea una serie di informazioni utili ai fini investigativi.

La notizia ha messo immediatamente in allarme non soltanto i birbaccioni britannici che hanno subito visto in pericolo i loro piccoli e grandi segreti, ma anche e soprattutto gli irriducibili sul fronte dei diritti civili fondamentali e della tutela della riservatezza personale.

Nonostante l’allarme incondizionato, che si è propagato rapidamente anche grazie a una poco attenta interpretazione della vicenda da parte delle agenzie di stampa, non ci sarà alcuna rivoluzione copernicana per chi adopera WhatsApp. Deve ritrovare pace chi ha temuto che venisse “sbriciolata” la crittografia end-to-end (leggiamo spesso sul nostro smartphone che per ragioni di sicurezza “è cambiata la chiave” che blinda le nostre comunicazioni con questo o quell’interlocutore) perché non ci sarà alcuna eccessiva segreta “trasparenza” nello scambio dei messaggi con chicchessia.

Allo stesso modo è bene che si tranquillizzi chi immagina che Facebook (proprietaria della piattaforma WhatsApp) venga forzata a infarcire l’applicazione con qualche mefistofelica “backdoor”. Non ci sarà nessuna scorciatoia o porta di servizio che potrà consentire agli “sbirri” di accedere indiscriminatamente a chiacchiere e “pizzini” digitali. La “app” non sarà quindi corredata di trappole in grado di violare liberamente la privacy degli utenti da chi abbia un ruolo istituzionale ma non l’autorizzazione a procedere.

Non mancherà chi, fatte queste precisazioni sul Cloud Act, si strofinerà le mani e penserà che l’incipit di questo scritto vada cancellato. Invece no. Chi, con la coscienza sporca, cerca sotterfugi per non farsi acciuffare e confida in una immaginaria impossibilità a intercettare, venendo a sapere del Cloud Act ha modo di scoprire che WhatsApp e altre soluzioni simili non sono impenetrabili in assoluto. La notizia di questo accordo deve far comprendere che alle occasionali richieste (spesso complicate dalle rogatorie internazionali) della magistratura di accedere a conversazioni e messaggistica, si affiancano regole volti a semplificare le procedure e ad agevolare le investigazioni.

Non ci si trova dinanzi a una generalizzata visibilità della vita e delle relazioni di tutti, ma semplicemente alla fluidificazione dei rapporti tra il cosiddetto “law enforcement” (ossia la macchina della Giustizia e delle forze di polizia) e i gestori dei più moderni servizi di comunicazione digitale.

Finora oltre Manica le richieste per acquisire prove utili per una investigazione poggiavano su presupposti normativi di un ordinamento legislativo degli anni Ottanta, contesto temporale in cui non era nemmeno immaginabile l’evoluzione tecnologica che abbiamo visto recentemente e dinanzi alla quale riusciamo ancora a stupirci tutti i giorni. Il Cloud Act si traduce in due parole: “niente scuse”. I gestori – dinanzi a sollecitazioni legittimate da regole precise – saranno obbligati a fornire dati, informazioni, testi e ogni altro contenuto senza poter opporre rifiuti (spesso camuffati da difficoltà tecniche o da mancate previsioni di conservazione/acquisizione) e soprattutto senza ritardi di sorta.

La lettura più ponderata del “Cloud Act” non esclude comunque le più naturali preoccupazioni. La debordante antologia di “fattacci” legati agli abusi delle strutture di intelligence non fatica ad inquietare. Sono troppi gli episodi che hanno visto la National Security Agency (Nsa) americana e il General Communications HeadQuarter (Gchq) britannico violare ogni legge o principio. I più sospettosi arrivano a pensare che l’accordo Us-Uk a questo proposito potrebbe trasformarsi in una sorta di pezza giustificativa per future manovre di controllo o di spionaggio.

Vogliamo sperare che le brutte pagine che Edward Snowden e altri ci hanno permesso di leggere non abbiano un seguito e che assolutamente non vengano scritte – ironia della sorte – sul retro dei fogli del “Cloud Act”.

@Umberto_Rapetto

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