Houston abbiamo un problema. 1994, la terza stagione della serie ideata da Stefano Accorsi, in onda da venerdì 4 ottobre su Sky, non ci è piaciuta. Addolorati, affranti, nonché letteralmente appassionati di 1992 e 1993, giungiamo a una conclusione che mai avremmo mai voluto scrivere. Non si sa bene quanti tra chi leggerà queste righe hanno già visto le prime due stagioni di una delle serie più avvincenti e innovative per l’industria italiana del settore.
Ricordiamo che la ricchezza, il florilegio, l’eterogeneità dei caratteri in scena in ogni singolo episodio era un punto di forza di un racconto corale, appoggiato ulteriormente su un finissimo, equilibrato e dialettico lavoro di montaggio. Una sorta di gettata sul tavolo della scatola di soldatini con conseguente loro lento posizionamento e spostamento come si faceva da ragazzini. Il bordone narrativo all’interno della procura di Milano nei mesi di Tangentopoli con un paio di sottotrame (Antonio Di Pietro e il poliziotto Luca Pastore); il personaggio di Leonardo Notte e tutto l’entourage politico tra trascorsi nel PCI/PDS e nel nuovo universo Publitalia/Forza Italia; l’accidentato ma robusto cammino del rozzo leghista Pietro Bosco; la vanesia, luccicante, travolgente ascesa di Veronica Castello. E poi ancora tanta, impetuosa e straripante storia di un’epoca dispersa tra dettagli tv, pop, politici, sociali fino a rendere ogni sequenza satura di piacere visivo e intellettivo.
Questa la sintesi di 1992 e 1993. Perché 1994, almeno nelle prime tre puntate della serie, non sembra nemmeno cugina di secondo grado di quello che avevamo visto in precedenza. Non ci vuole molto a motivare questo punto di vista. Perché capiamo che quello che noi reputiamo un difetto per il trio delle meraviglie (anzi quartetto), ovvero i nostrani sceneggiatori Alessandro Fabbri, Ludovica Rampoldi, Stefano Sardo e il regista Giuseppe Gagliardi, sia una scelta di scrittura e messa in scena coraggiosa e precisa. Nel primo episodio si segue soltanto la ri-nascita di Notte durante la sera del duello tv nel 1994 tra Berlusconi e Occhetto dopo che alla fine di 1993 qualcuno aveva tentato di ucciderlo e pareva morto stecchito. Nella seconda puntata fotocopia ancora 45 minuti monografici: Veronica Castello che diventa deputata di Forza Italia. Terza: Bosco e il mondo freak dei leghisti calati su Roma.
Sparito l’intreccio, riappare sempre e comunque un personaggio. Unico, statico, marmoreo. Ogni episodio letteralmente in apnea soggettiva, non stilistica che magari chissà. Così 45 minuti di Notte tra i corridoi della tv (c’è perfino un piano sequenza che qualcuno riporta a Birdman, ma sembra più da Quei bravi ragazzi), davvero, anche con il bene che vogliamo a Stefano Accorsi, che non è Christian Bale, sono così macchinosi e pesanti che la saturazione arriva già a metà puntata. Se il coté del primo episodio (leggasi Berlusconi vs Occhetto e D’Alema in automobile) ha quell’appeal nostalgico in più che si lascia malinconicamente vedere, quando si arriva alla seconda puntata con l’affermazione di Veronica in Parlamento si toccano vette di sorrentinismo conclamato che portano ai duplicanti/replicanti de Il Divo. Anche qui pur amando la Leone, ma amandola in un modo che nemmeno ci si può immaginare, 45 minuti di one woman show senza mai un vero e proprio sparring partner, o addirittura immergendola in mezzo a delle terrificanti sosia delle seconde linee della politica anni novanta (l’appunto sorrentiniana camminata al ralenti delle parlamentari non si può guardare) non fanno che affondare questa straordinaria intuizione di scrittura che è stata Veronica, questa cometa umana egocentrica, luminosa e tossica della scalata sociale dell’epoca, lasciandola penzolare tra le voglie di Notte e l’emancipazione femminile un tanto a disegno di legge.
Insomma, il rimescolamento continuo delle carte dava (banalmente) un grande ritmo e un invitante spessore anche al significato politico della serie (il disfacimento morale dell’Italia, per dirne una). Mentre l’accorpamento sotto una sola storia in tanti piccoli interni chiusi parcheggia 1994 tra un kammerspiel qualsiasi e l’introspezione bergmaniana senza Liv Ullmann ed Erland Josephson. 1994 non ha la ginga delle annate precedenti. Non morde, non azzanna, non squaderna, non sconvolge come fece a suo tempo 1992. Forse perché in mezzo ci sono passate una tale quantità di cloni berlusconiani-craxiani-dipietristi che non se ne può più. Quindi ai neofiti della serie pregasi passare assolutamente dal via.