Non fu omicidio volontario. La notte tra il 12 e il 13 febbraio 2016 Giuseppe Difonzo uccise, soffocandola nel sonno, la figlia Emanuela di tre mesi mentre era ricoverata da 79 giorni all’ospedale pediatrico Giovanni XXIII. Ma per i giudici della Corte di Assise di Bari non voleva o meglio andò oltre le sue reali intenzioni come si legge nelle motivazioni della sentenza con la quale nel marzo scorso il 31enne di Altamura è stato condannato a 16 anni per omicidio preterintenzionale aggravato.

All’imputato i magistrati hanno contestato anche due episodi di lesioni personali volontarie aggravate. Secondo la corte “i comportamenti lesivi in danno della figlia avevano l’obiettivo di richiamare l’attenzione su di sé, come effetto della sindrome di Munchausen“. Così come aveva fatto in altri episodi, riuscendo però a salvarla sempre in extremis. Cosa che ha tentato di fare la notte di febbraio. “Difonzo tendeva a creare situazioni di pericolo per la bambina, per così dire, controllabili, ossia che non mettessero in pericolo in modo irreversibile la vita della stessa”.

Non solo: per la Corte l’imputato “non ha portato a termine l’azione omicida, come pure avrebbe potuto, ma ha chiamato i soccorsi quando ha visto comparire i segni della cianosi”. La crisi respiratoria però era troppo grave, i tentativi di rianimazione sono stati inutili. La piccola qualche giorno prima della morte, il 15 gennaio 2016, era stata affidata ai servizi sociali ma il provvedimento era stato prima sospeso e poi definitivamente revocato il 29 gennaio. Così il tribunale l’aveva riaffidata al padre e alla compagna. Una settimana dopo però Emanuela era di nuovo in ospedale, dove il padre aveva più volte tentato il soffocamento. Ad assistere a un tentativo, il giorno prima del decesso, era stato un bimbo di tre anni e mezzo, che agli inquirenti ha confermato l’episodio, mimando i gesti dell’uomo.

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