Non solo a Padova, ma anche a Treviso. Nel giro di pochi giorni due imam operativi in Veneto sono finiti agli arresti perché accusati di aver picchiato gli alunni delle scuole islamiche che non riuscivano a imparare a memoria le “sure” del Corano.

Il primo caso si è verificato pochi giorni fa nella moschea del popoloso quartiere padovano dell’Arcella, con l’arresto del bengalese Hossain Shahadat, di 23 anni. Adesso è finito ai domiciliari Omar Faruk, 36 anni, imam della moschea di Pieve di Soligo per accuse analoghe, ma a conclusione di un braccio di ferro tra la Procura della Repubblica di Treviso, che aveva chiesto il provvedimento, e l’ufficio dei gip, che lo aveva respinto. Ci ha pensato il Riesame a prendere la decisione, che ha suscitato il commento dei pubblici ministeri: “È stata fatta giustizia nei confronti di quei bambini”.

La decisione è stata notificata all’ex capo spirituale della comunità bengalese di Pieve di Soligo e al suo difensore, l’avvocato Roberto Baglioni di Venezia. Le motivazioni non sono state ancora depositate, ma accolgono le osservazioni del pm Massimo Zampicini, nell’appello contro la decisione del gip Gianluigi Zulian che a luglio si era limitato a fissare il divieto di dimora nella provincia di Treviso per l’imam accusato di violenze. “Può commettere ancora lo stesso reato in un’altra comunità di cui diventi la guida spirituale e può inquinate le prove cercando di condizionare le famiglie che hanno sentimenti di stima nei suoi confronti” aveva scritto il pm. “Vanno, infatti, protetti quei giovani credenti che hanno diritto di andare a lezione di religione, ma anche di essere messi al sicuro dalla coercizione e dalla violenza”, soprattutto se questa è costituita da un’autorità religiosa.

Dall’inchiesta sono emersi episodi molto gravi. L’imam, secondo la procura, picchiava i bambini, li trascinava a terra prendendoli per i capelli e tirava loro le orecchie soltanto perché non imparavano a memoria i versetti del Corano in arabo. In un caso a un alunno di sei anni avrebbe fatto un segno con la mano sotto il collo, come a significare che avrebbe potuto tagliargli la gola. Il fatto è che della cinquantina di piccoli che frequentano la moschea di via Schiratti, praticamente tutti nati in Italia, la conoscenza della lingua araba è spesso approssimativa. Sono nati e cresciuti in Italia, studiano e parlano in italiano.

L’inchiesta era partita dalla segnalazione delle maestre che si erano insospettite per i segni di percosse, ma anche per crisi di pianto e manifestazioni di disturbi dell’umore. E loro avevano confermato: “È stato il nostro maestro di religione, in moschea”. Molte, però, le difficoltà con le famiglie, che sembravano voler proteggere l’imam: “È una brava persona, non bisogna credere ai nostri figli”. Al punto che il gip Zulian, nell’ordinanza di luglio, aveva descritto un clima “omertoso, connivente e al limite del favoreggiamento”. La prova delle accuse è costituita dalle intercettazioni ambientali eseguite all’interno della scuola coranica dai carabinieri di Vittorio Veneto.

Intanto continua a Padova l’inchiesta condotta dalla Digos sui presunti comportamenti violenti dell’imam Hossain Shahadat. Con l’aiuto di un pool di psicologici dell’età evolutiva, gli agenti hanno ascoltato gli allievi della moschea. Anche a Padova sono state utilizzate microspie per registrare quanto accadeva all’interno della scuola, prima di procedere all’arresto. Oltre alle botte e agli schiaffi, anche frasi molto minacciose. Del tipo: “Ti stacco un orecchio”, “Ti stacco la guancia”, “Ti spacco la testa” e “Ti picchio con il bastone”. Davanti al gip, l’indagato si è avvalso della facoltà di non rispondere. I suoi difensori, Fabrizio Daga e Raffaella Ruffato, hanno chiesto gli arresti domiciliari.

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