Una marea verde ha invaso le strade dell’America Latina e non solo: migliaia di donne, vestite di nero e con gli ormai celebri foulard verdi, hanno marciato lo scorso fine settimana per chiedere un aborto legale, gratuito e sicuro. Convocata dall’Argentina, la Giornata di azione globale per l’accesso all’aborto legale (istituita nel 1990 dalle organizzazioni femministe latinoamericane) ha visto la partecipazione in piazza anche di bambine e nonne per reclamare a gran voce un diritto ancora negato in gran parte del continente. Le principali manifestazioni si sono avute a Buenos Aires e Città del Messico, ma ci sono state marce anche in Ecuador, Paraguay, Bolivia, Colombia, Spagna e Olanda.
In Messico le donne di Jalisco, Chihuahua, Aguascalientes, Monterrey, Quintana Roo, Tamaulipas e Tijuana hanno marciato per chiedere al presidente Andrés Manuel López Obrador di depenalizzare l’aborto in tutto il paese. Finora infatti è stata Città del Messico l’unica città a consentire, dal 2007, l’aborto in qualsiasi circostanza entro la dodicesima settimana di gestazione, mentre nel resto dello Stato era ammesso solo in caso di stupro. Dallo scorso 25 settembre anche Oaxaca ha depenalizzato l’aborto.
Oltre alla capitale messicana e Oaxaca, in America Latina e Caraibi, solo in Uruguay e a Cuba (già dal 1965) è consentito interrompere la gravidanza sempre. Secondo i dati dell’Istituto Guttmacher (gruppo di ricerca a sostegno del diritto all’aborto), il 97 per cento delle donne che vivono in America Latina e Caraibi sono sottoposte a leggi restrittive sull’interruzione di gravidanza e sei paesi – Repubblica Dominicana, Salvador, Haiti, Honduras, Nicaragua e Suriname – non la permettono in nessuna circostanza. Tra il 2010 e 2014 si stima che 6,5 milioni di donne si siano indotte l’aborto e che ogni anno circa 760.000 donne vengano curate per le complicazioni di aborti fatti senza sicurezza.
Qualcosa però si sta muovendo e le latinoamericane, complici anche i movimenti #Niunademenos e #MeToo, hanno iniziato a reclamare a gran voce i loro diritti, avversati finora da una società ancora profondamente maschilista e dalla Chiesa. In Argentina, l’anno scorso è stata condotta una strenua battaglia per depenalizzare l’aborto, ma ci si è dovuti fermare dinanzi alla bocciatura del progetto di legge al Senato.
L’onda verde non si è però rassegnata. Nel 2017 è stato il Cile a eliminare il bando totale dell’aborto e permetterlo in tre casi (stupro, pericolo di vita della madre, malformazioni del feto incompatibili con la vita), mentre in Ecuador le donne sono scese per le strade di Quito e delle altre città per chiedere al Governo di porre il veto alla risoluzione dell’Assemblea nazionale che ha negato la depenalizzazione dell’aborto in caso di stupro. Decisamente difficile la vita anche per le donne del Salvador, dove oltre dodici sono in carcere per aver abortito, a volte condannate anche a pene di 40 anni. Un sistema che finisce per abbattersi soprattutto sulle più povere, le giovani e le vittime di violenza sessuale, oltre che su chi offre assistenza sanitaria trattare le complicanze di un aborto.
Il tasso di mortalità materna è tre volte più alto nei paesi con le leggi più restrittive sull’aborto rispetto a quelli più flessibili (223 morte contro 77 ogni 100.000 nascite). Le complicazioni durante la gravidanza e il parto sono la principale causa di morte tra le adolescenti di tutto il mondo. Inoltre, lì dove l’aborto è vietato sempre o in quasi tutte le circostanze, come in Cile, è frequente imbattersi in numerosi casi di figli abbandonati dalle proprie madri, anche diversi anni dopo la nascita. Attualmente, in America Latina chi può permettersi di abortire senza rischiare la vita sono solo i privilegiati che hanno i soldi per pagarsi l’assistenza sanitaria e il silenzio dei medici che lavorano in cliniche esclusive.