Uscito negli Stati Uniti il 24 marzo, giorno del centesimo compleanno dell’autore, Little Boy (pubblicato in Italia da Edizioni Clichy e tradotto da Giada Diano) può essere considerato non solo il testamento umano e letterario di una delle figure più importanti della narrativa occidentale del Novecento, ma anche uno dei migliori testi usciti in questi ultimi anni, di qua e di là dell’oceano. Lawrence Ferlinghetti, sopravvissuto a tutti i suoi compagni d’avventure, incarna la cultura americana contemporanea, così come le sue parole.

Little Boy è un testo non classificabile: non è un’autobiografia e non è un romanzo. O meglio, non lo è nella modalità in cui siamo abituati a definire questi due generi. È qualcosa d’altro: uno scritto visionario, filosofico, poetico, a cui Ferlinghetti ha lavorato per quasi tutta la vita.

Con un linguaggio torrenziale, in cui emergono tracce delle sperimentazioni beat, il ragazzino del titolo (lo stesso autore) conduce il lettore tra incomprensioni familiari, l’affido alla zia che lo portò in Francia, il ritorno in America, l’adozione in una famiglia che gli consentì di studiare giornalismo, lo scoppio della Seconda guerra mondiale, l’arruolamento tra le file dello Zio Sam. E poi vagabondaggi, coraggiose prese di posizione contro la censura, la solidarietà con “l’urlo dei diversi”.

Reminiscenze biografiche si intrecciano con esplosioni di parole, tributi ai compagni di strada – in primis Allen Ginsberg -, riflessioni e moniti contro la stupidità ottusa del potere.

Conosciuto per essere il fondatore, nel 1953, della storica libreria City Lights a San Francisco, e due anni più tardi dell’omonima casa editrice che per prima diede spazio a Howl – il poema di Allen Ginsberg inizialmente confiscato dalle autorità e che causò a Ferlinghetti l’arresto con l’accusa di vendita e diffusione di materiale osceno – , per le frequentazioni di Jack Kerouac, Gregory Corso, William Burroughs, e come autore di testi lirici straordinari come A Coney Island of the mind (traduzione di Damiano Abeni e Moira Egan; Minimum Fax), il poeta-scrittore (e anche pittore) centenario ha lasciato dietro di sé, oltre a questa nuova, importantissima opera, una vastissima produzione.

Solo due anni fa, in Italia, è uscito per Il Saggiatore un volume notevole, Scrivendo sulla strada. Diari di viaggio e di letteratura (a cura di Matthew Gleeson), che in parte anticipa le tematiche di Little Boy: è l’esperienza di un viaggiatore infaticabile, un ritratto dei tempi della Sorbona, dello sbarco in Normandia, della rivoluzione a Cuba e in Nicaragua e della degenerazione della Russia sovietica.

Nelle pagine compaiono Fidel Castro, Ezra Pound, e i soliti noti William Burroughs e Alien Ginsberg. C’è l’Italia delle radici familiari, la Spagna franchista, i motel sulle interminabili strade americane, le bettole nei suq di Marrakech, le notti etiliche di Città del Messico e c’è Parigi, città raccontata anche in un altro libro, meno noto, ma, a mio avviso, bellissimo: L’amore nei giorni della rabbia (traduzione di Ginny Jewiss; Mondadori).

Quest’ultimo è una storia d’amore tra una pittrice e insegnante e un banchiere anarchico che si consuma nell’infuocato maggio del 68, durante la contestazione studentesca, dove l’atmosfera della capitale francese e di quello che stava accadendo vengono viste con l’occhio del pittore – quindi dello stesso Ferlinghetti – e nel libro della protagonista che solidarizza con i propri studenti e racconta la città attraverso il suo sviluppo artistico e ribelle.

Little Boy racchiude altro, ma anche questo: contiene, in poche parole, il gigantesco bagaglio culturale, politico, umano dell’autore. Con il libro, che sarà presentato per la prima volta in Italia il 5 ottobre a Umbrialibri 2019, arriva il giorno prima al Festival in anteprima nazionale anche il film documentario Lawrence. A Lifetime In Poetry, diretto dalla stessa traduttrice, Giada Diano, e Elisa Polimeni, il 4 ottobre alle 18.00 a San Pietro.

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